Intervento al Convegno "Diritto, Psichiatria e Società Civile. Una convivenza difficile", Roma, Biblioteca Nazionale, 8 maggio 2015, organizzato da Carminella, associazione di promozione sociale.
Nell’aprile del 1947 un
pastore beduino di nome Muhammad detto ed-Dīb
(il Lupo), cercando una sua capra smarrita trovò una fenditura nella parete
rocciosa a picco sullo uadi Qumràn, in quella che allora era la Palestina mandataria
governata dagli inglesi. Gettò un sasso nella fenditura, come era solito fare
quando andava in cerca di tesori nascosti e, quella volta, sentì distintamente
un secco rumore di cocci infranti.
Il giorno dopo tornò,
accompagnato - si dice - da un cugino, e si infilò in quella che si rivelò
essere una angusta grotta dove giacevano, ricoperte dalla polvere dei millenni,
numerose giare di terracotta sigillate. Le aprì e scoprì che contenevano una
gran quantità di rotoli e di frammenti di papiro scritti in ebraico, aramaico,
greco.
Alcuni reperti finirono
velocemente nei retrobottega del mercato clandestino di antichità a Betlemme,
poi a Gerusalemme e infine al Cairo, come nei migliori film di
archeo-avventura; più tardi altri furono venduti attraverso normali annunci
economici pubblicati nientemeno che sul Wall Street Journal. Ma dopo che si
iniziò a valutarne con serietà l’importanza, alcune missioni archeologiche
misero in sicurezza i siti ed iniziarono indagini più accurate nella zona.
Le ricerche successive
rivelarono altre dieci grotte ricche di manoscritti spesso ridotti in
pezzettini grandi come francobolli o anche meno; oggi conosciamo questi testi
come “rotoli di Qumràn”. Era stata scoperta, proprio per caso - per una capra
smarrita - la ricca biblioteca di una antica comunità giudaica, probabilmente
essenica. Biblioteca nascosta in quelle grotte all’approssimarsi delle legioni
romane mandate a sedare la rivolta degli ebrei in quella che le cronache poi chiamarono
“prima guerra giudaica”.
In questi manoscritti -
datati non oltre il 68 d.C. quando le grotte furono sigillate per l’arrivo dei
Romani - sono stati trovati brani ampi della Bibbia ebraica, delle regole
interne della comunità di Qumràn e di testi oggi considerati apocrifi del
Vecchio Testamento, cioè non canonici né per l’ebraismo né per il cristianesimo,
poi pubblicati in parte dal 1976. Tutto il materiale oggi conosciuto è stato messo
a disposizione, in specifiche pubblicazioni, solo dai primi anni Novanta; ed è
da quella data che gli studiosi sono stati costretti a prendere atto che tutto
ciò che sapevano, e che anche noi sapevamo, del mondo giudaico precristiano e
del primo cristianesimo doveva essere ripensato.
In particolare i testi
apocrifi risultarono essere ideologicamente alquanto scomodi per la tradizione
cristiana, dal momento che minavano l’idea di una assoluta originalità del
pensiero cristiano primitivo derivante dalla asserita - e quindi, per ovvi
motivi, dirompente - “rivelazione” del Messia.
Fra i molti testi di
indiscutibile interesse storico ed epigrafico, una breve scritta appare ai
nostri occhi, per le finalità di questa ricerca, particolarmente significativa.
In un papiro trovato
proprio nella prima grotta, un inno che conosciamo come la “Preghiera
nell’angoscia e fiducia in Dio” recita testualmente: «Quale creatura d’argilla
può fare miracoli? Fin dall’utero è nel peccato e fino alla vecchiaia nella
colpevole iniquità».
Una frase che
costituisce la sintesi finale di un percorso ideologico durato alcuni secoli, a
partire da una mitologia elaborata dapprima in aperta contrapposizione e poi in
una dimensione di rivalità più o meno accentuata con la stessa “Bibbia” ebraica.
Una mitologia che
definisce il Male come intrinseco alla natura umana: l’essere umano è un “grumo
d’argilla”, una irrilevante materialità inorganica, che è nel peccato “fin
dall’utero”. E che in tale stato rimane fino alla vecchiaia.
Il peccato ne è dunque
elemento “costituitivo” e non è riscattabile in alcun modo; tale è il destino
dell’umanità nell’antropologia, che non esiteremmo a definire “negativa”, di
questa particolare setta giudaica ormai scomparsa.
Scomparsa, ma niente
affatto irrilevante per quanto poco conosciuta, se uno studioso di primo piano
dell’essenismo come Gabriele Boccaccini è arrivato a dire che la nostra civiltà
nei fatti è “essenica non meno di
quanto sia greca”. Al punto che se invece della controversa definizione di
“giudaico-cristiana” - attribuita comunemente alla tradizione occidentale - noi
sostituissimo la dizione “essenico-cristiana” saremmo molto, molto più vicini
al vero.
Poco prima del tempo in
cui i settari di Qumràn si occupavano di mettere al sicuro la loro preziosa
biblioteca, un ebreo di nome Saul, proveniente da Tarso in Cilicia, meglio
conosciuto con il suo nome romanizzato di Paolo, abbagliato da una misteriosa
apparizione mentre si recava a Damasco per mettere al loro posto i turbolenti seguaci
di un predicatore itinerante di nome Jeoshua, cadde in un improvviso,
inspiegabile e profondo stato di prostrazione. Per tre giorni rimase accecato,
incapace di nutrirsi e di bere; allucinato da una visione che non poteva
spiegarsi.
Convertito
dall’apparizione del Cristo risorto che gli aveva parlato - così scrisse nelle
sue “epistole” - si definì “apostolo per chiamata” ed iniziò la sua
predicazione che si svolse, come sappiamo, fra i non ebrei, fra i “gentili”.
Nella sua Lettera più
emblematica, quella ai Romani, egli ha tracciato le coordinate di
un’antropologia che ricalcava, modulandola in modo originale, quella degli
esseni di Qumràn:
«Io
non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io
faccio, ma quello che detesto (...) Io so infatti che in me, cioè nella mia
carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità
di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non
voglio. (...) Sono uno sventurato! Chi mi libererà da questo corpo votato alla
morte?».
L’apostolo parla con
estrema chiarezza. Anche se potrebbe sembrarlo - per quel riferimento alla
“liberazione dal corpo votato alla morte” - egli non delinea qui il dualismo
tra anima e corpo di nota origine greca che considerava il corpo solo come
brutale “tomba dell’anima”.... un dualismo che noi sappiamo essere stato poi
assorbito dalla patristica e fatto proprio da tutta la tradizione occidentale,
fino alla nota distinzione di Cartesio fra res
cogitans e res extensa...
No. Qui Paolo parla di
una scissione netta tra una volontà cosciente - che vuole praticare il “bene” -
ed un misterioso ostacolo, tutto interno a se stesso, che gli impone di
compiere il male. Quel male che egli non vuole. Quel male che lo fa disperare.
E che non sa come
affrontare perché proviene da qualcosa che è in lui stesso, nella sua “carne”,
nelle sue membra; qualcosa di non conosciuto che si oppone alla volontà della sua
stessa coscienza e che impone una incomprensibile, incoercibile volontà
superiore che lo conduce inesorabilmente a compiere il male.
Paolo delinea un
conflitto tra ciò che è cosciente e ciò che è... possiamo definirlo inconscio?
L’apostolo non ha dubbi
e nella stessa lettera indica con precisione l’origine di questa tendenza
maligna; che non definisce come malessere personale, non è disagio individuale,
ma Male proprio della natura umana; un peccato che l’uomo ha in sé, potremmo
dire, “fin dall’utero”.
Il peccato di cui parla
“è una trasgressione che si perde nella notte dei tempi, che risale ad Adamo,
nel quale tutti siamo peccatori”, come ha scritto Paolo Sacchi, uno dei più
insigni studiosi dell’apocalittica giudaica e del primo cristianesimo.
«Per la disobbedienza di uno solo - recita infatti l’apostolo - tutti sono stati costituiti peccatori»;
interpretando così, in modo originale, il noto passo biblico della
trasgressione di Adamo ed Eva, che di per sé non imponeva affatto di pensare
che “tutti”, tutta l’umanità, fosse coinvolta nella colpa dei mitici progenitori.
Con questa
interpretazione Paolo delineò così, sulle tracce degli esseni, le coordinate di
quell’ideologia che più tardi Agostino provvederà a sistematizzare nel dogma
che noi tutti conosciamo come “peccato originale”: la colpa del primo uomo si
tramanda di generazione in generazione, investendo ogni essere umano. Che nasce
dunque con un minus irrisolvibile, una
colpa che lo lega, che fa del suo corpo il contenitore di una naturale
peccaminosità e priva la vita umana di “senso”: di quel “senso” vero che le derivava - secondo la
teologia - dalla Creazione, dalla mano stessa di Dio.
«La
nostra natura malata - scriveva Gregorio di Nissa nel IV secolo - richiedeva d’essere guarita; decaduta,
d’essere risollevata; morta, di essere risuscitata. Avevamo perduto il possesso
del bene; era necessario che ci fosse restituito. Immersi nelle tenebre,
occorreva che ci fosse portata la luce; perduti, attendevamo un salvatore;
prigionieri, un soccorritore; schiavi, un liberatore»
La natura umana, resa
vuota dalla colpa, doveva essere nuovamente “riempita” di senso, doveva essere
“riempita” di verità. Che non è verità umana, ma verità divina, verità dello Spirito
assoluto. Quello spirito assoluto che è immaginato “scendere” quindi a farsi
uomo, per riscattare la materia dalla sua perdizione. E la natura umana,
decaduta e morta, acquisisce nuovamente - ci viene detto - una sua realtà
effettiva solo nella misura in cui l’infinito, preesistente all’uomo, “entra”
nella finitudine della carne e conferisce alla vita umana quel senso che solo lo Spirito le può dare.
Unico rimedio, dice la
teologia, è il lavacro del battesimo che costituisce anche la carta d’ingresso nella
comunità dei cristiani: una volta battezzati, si è battezzati in Cristo.
Gli “altri”, i non
cristiani, i non battezzati, restano macchiati da quella irrimediabile colpa
che fa loro perdere l’imago dei -
l’immagine divina - con cui tutti sarebbero stati creati. Avendola perduta si è
viventi, ma non più simili a Dio; si è vivi, ma come gli animali. Perduta e
morta la natura umana è degradata, l’uomo vive, ma di vita animale.
Sono i fondamenti di una
cultura che ama chi si fa simile a se stessa, che cancella le differenze di
etnìa, di genere, di stato sociale, lo scriveva Paolo nella Lettera ai Gàlati,
ma solo fra chi è reso “uguale” dalla conversione, fra chi ha accettato di
essere battezzato in Cristo.
Per gli altri non c’è
alcuna eguaglianza; la cristianità ha sempre avuto, dei “diversi” da sé,
un’idea di irrisolvibile alterità. Come, d’altra parte, ha sostenuto -
ribadendo coerentemente la dottrina cattolica - anche Papa Bergoglio, quando,
nell’Udienza Generale dell’8 gennaio 2014, ha affermato che «un bambino battezzato non è “uguale” a un
bambino non battezzato. Chi è
battezzato non è “uguale” a chi non è battezzato».
Ma noi, la nostra società,
la cultura occidentale, si è resa autonoma - lo sappiamo - dai dogmi della
religione.
Il pensiero dell’uomo si
è voluto rendere indipendente dal pensiero di Dio. Il pensiero si è fatto
filosofico nel secolo dei Lumi e orgogliosamente ha affermato la sua nuova
identità: il mondo è laico, la società si fonda sulla Ragione universale, non
sull’universale divinità; e la religione deve essere confinata nelle segrete
stanze della vita privata. Così si è pensato che dovesse essere. Così l’alba di
un mondo libero dall’alienazione religiosa si è affacciato nelle parole di
Georg Christoph Lichtenberg nella seconda metà del Settecento: «Dio creò l'uomo
a sua immagine. Il che probabilmente significa che l’uomo creò Dio secondo la propria immagine». Parole poi ripetute
nel più famoso motto di Ludwig Feuerbach, un secolo più tardi: «Non è Dio che
crea l’uomo, ma l’uomo che crea Dio».
E quel minus che la cristianità ha affermato
essere “cosa propria” della natura umana?
Nella tradizione occidentale,
quando l’idea di Rivelazione cominciò ad essere negata e tradotta nei termini
di pura Ragione universale, è la ricerca filosofica che laicizza, se così si
può dire, l’intrinseca peccaminosità declinandola, filosoficamente, nell’umano
“legno storto” contrassegnato, secondo Kant, da un “male radicale”, una innata
tendenza alla malvagità che spingerebbe l’uomo ad allontanarsi dalla legge
morale radicata nel suo cuore...
O declinandola freudianamente
nella “perversione polimorfica” del bambino; o ancora, lacanianamente, nell’originaria
manque-à-être.
La mancanza è quel vuoto
interiore che solo la Ragione, la razionalità del pensiero astratto, può
compensare, dando di nuovo “senso” - corsi e ricorsi della storia - a ciò che
appare, ancora una volta, “privo di senso”. Privo di senso umano.
E sappiamo bene, dai
filosofi, come la “coscienza angosciata” affondi le sue radici proprio in
quella oscura sensazione di “mancanza di senso” che è - di nuovo - mancanza
ritenuta “originaria”. Vuoto proprio degli esseri umani.
L’uomo è niente, lo
Spirito è tutto. In questa logica, che fa letteralmente sparire l’umano in una totale,
incomprensibile, inconsistenza ontologica... «l’unica realtà, l’unica verità assoluta - sono le parole di sferzante
sarcasmo dello psichiatra Massimo Fagioli - è
la divinità, perché è l’unica verità che non va incontro all’inesistenza,
mentre l’uomo va incontro all’inesistenza» e «siccome va incontro
all’inesistenza, in verità la realtà dell’uomo non è vera; l’unica verità è
quella divina e l’uomo, come ripeterà Hegel, è soltanto epifania di Dio»
L’uomo, dice il
religioso, non è, di per sé; l’uomo -
ripete il filosofo - non è, di per sé.
E’ soltanto epifania, manifestazione, del divino, dello Spirito assoluto.
E’ necessario ricordare
ciò che affermò Karl Löwith, ce lo ricorda Giorgio Fazio in un libro
recentissimo “Il tempo della
secolarizzazione”: «Löwith punterà a mostrare - scrive Fazio - come la
secolarizzazione dell’escatologia cristiana abbia attraversato
longitudinalmente l’intera storia del pensiero occidentale e sia stata alle
origini delle sue più profonde patologie culturali».
Patologie culturali che
si sono concretizzate nella storia in due termini assoluti quanto implacabili:
assimilazione o sterminio.
I filosofi delinearono la
possibilità che la Ragione universale avesse la capacità di “metabolizzare” la
diversità nell’ambito dell’Occidente; Hegel sosteneva che “i costumi e il
contagio della razionalità universale (...) rendono l’esclusione non necessaria”;
il che permetteva una generica tolleranza. Se l’emancipazione si risolveva
nell’assimilazione - rendersi uguali - essa non era niente più, in sostanza, che
una versione laica della conversione cristiana. Diventino tutti uguali a noi,
per Ragione se non per Fede, e, con il dissolvimento di ogni diversità, ogni
problema sarà risolto.
Ma ancora Löwith
avvertiva che «l’impossibilità di elaborare un sistema progressivo sulla base
della fede, ha la contropartita nell’impossibilità di tracciare un piano
significativo della storia mediante la ragione».
L’assimilazione poteva
quindi fallire, così come era fallita la pretesa apostolica di convertire il
mondo all’universalismo evangelico; la prassi sterminatoria si è allora
affacciata sul palcoscenico europeo come unico rimedio possibile per la
soluzione del problema della “diversità”.
I Quaderni neri di Martin Heidegger ci stanno dando, proprio in
questi mesi, il più chiaro esempio di quali patologie si sia macchiato il
pensiero occidentale. Lo sterminio implacabile di un intero popolo pensato,
pianificato e messo in pratica con impressionante pervicacia. Ed era un popolo di
non “battezzati”, lo sappiamo.
Indagare sullo sterminio
degli ebrei europei diventa quindi necessario allorché si convenga che essi
hanno costituito, per venti secoli, il “diverso
paradigmatico” per l’occidente cristianizzato.
Ma, in epoca di
colossali migrazioni di esseri umani verso il mondo occidentale, per motivi
economici e per il disastro sconvolgente che attanaglia l’Africa subsahariana e,
per altri versi, il mondo islamico, lo stesso problema del confronto e del rapporto
con il “diverso” si riaffaccia ancora più impellente nelle cronache dell’attualità.
E la stessa, drammatica,
prassi di rapporto che l’Occidente ha posto in essere verso l’ebraismo alcuni
decenni fa potrebbe presentarsi di nuovo all’orizzonte con i migranti, i nuovi
“diversi” di un Occidente europeo in cui le pulsioni razziste ed i populismi
etnocentrici si affacciano di nuovo, con estrema prepotenza, nel quadro
politico continentale.
Pulsioni finalizzate prima
di tutto a guardare con occhi privi di qualsiasi emotività - e umanità - al dramma di centinaia di migliaia
di esseri umani, con la protervia di valutare quegli stessi uomini e donne che
oggi arrivano, sui barconi o nascosti nei Tir, non come esseri umani, ma come un
“costo” per le nostre società. Costi; cioè numeri. La disumanizzazione ha
sempre tradotto gli uomini in numeri. Quindi si tagliano le operazioni di
ricerca e salvataggio “con la motivazione più vergognosa: i soldi”, come ha
recentemente ricordato Emma Bonino.
Al fondo c’è il razzismo più becero; quello che impedisce a
chi è di pelle scura di salire su un treno anche se ha comprato il biglietto.
E’ cronaca di questi giorni, in un paese che si dice civile.
Certo, lo sappiamo, le
pulsioni etnocentriche, violente e intransigenti, che si fondano sui cosiddetti
“valori” occidentali, trovano validissima sponda nel terrorismo islamista che
in uno scontro epocale fra cristianità e mondo islamico vede la sua unica
possibilità di proporsi come avanguardia politico-religiosa di un nuovo Islàm
intransigente, efferato e fondamentalista.
Ma in realtà, scrive Zucconi su Repubblica,
«nei prossimi decenni l’integrazione non sarà più una scelta, ma una necessità».
Con questo ci dovremo confrontare, stando bene attenti ad elaborare a fondo il
passato per evitare che l’orrore si ripresenti come tragico “eterno ritorno
dell’uguale”.
Torniamo a noi: il
titolo di questo incontro è “Diritto, Psichiatria e Società civile”.
Ebbene, quale occasione
migliore per ricordare che tutto ciò che svuota l’umanità del senso del suo essere, della sua realtà
più profonda, della sua innata socialità e capacità di rapportarsi
affettivamente agli altri esseri umani, tutto ciò che annulla l’essenza propria
dell’umano - affermato come verità inconfutabile in ambito teologico,
filosofico, psicanalitico o antropologico - comporta una conseguenza ultima: l’assoluta
certezza dell’impossibilità di una qualsiasi psichiatria che non sia puro
“contenimento” di questo vuoto affettivo definito “naturale”. E, con essa,
l’impossibilità di immaginare una socialità libera da qualsiasi gabbia, fisica
o mentale, che lo “contenga”.
Nessuna cura della
malattia mentale è possibile - di più, nemmeno ipotizzabile o proponibile - se
la “mancanza” - il nulla, il vuoto - è considerata attinente, come dimensione
originaria, alla natura stessa dell’essere umano.
Ma la “mancanza” è ideologia, non verità dell’essere umano.
Il “vuoto” affettivo non
è originario: è patologia. Che pretende una cura.
interessantissimo ... ma gli esseni chi erano; ho letto che erano dei monaci eremiti di origine semitica , ma tu sembri escludere questa possibilità .
RispondiEliminaComunque grazie
Erano una setta giudaica di ambito apocalittico che si poneva in modo conflittuale con il sacerdozio del Tempio di Gerusalemme. Aveva una sua antropologia alquanto diversa da quella dei sacerdoti e dai farisei.
RispondiEliminaSintetizzando possiamo dire che costituiva la fase finale di una mitologia detta enochica (dal profeta Enoch) nata in contrapposizione con quella mosaica (di Mosè) cioè in contrapposizione con la Bibbia ebraica.
grazie ...
EliminaG.C.Z.