La "lunga battaglia
contro la Bibbia" sempre rivendicata da Fagioli[1].
Tredici dicembre duemilatredici. Nel corso del dibattito
successivo alla presentazione di un bel libro su Gilgamesh, figura significativa
della mitologia mesopotamica, Massimo Fagioli e Franco D’Agostino - lo
psichiatra e l’assirologo - spaziarono con passionalità sui tempi, i temi, le immagini,
i pensieri di culture millenarie e sulle enormi implicazioni del pensiero
religioso. Questo è stato il punto di partenza di una ricerca complessa e molto
coinvolgente per chi volesse approfondire una frase fondamentale del quarto
libro di Fagioli, dove si specifica, contrariamente a quanto proposto dalla tradizione
marxista, che «l’alienazione religiosa è
a monte, non a valle delle altre
alienazioni (...) è alla nascita
dell’uomo e soltanto un rapporto interumano sessuato può far superare al
neonato il germe della sua alienazione»[2].
Alienazione individuata dallo psichiatra - in netta opposizione
al freudismo - nella dinamica della nascita: «L’io esiste fin dal principio e deve svilupparsi». Affermazione che
indica nella realtà del neonato non un vuoto originario, ma quella fisiologica carenza che deve essere colmata nel
rapporto; una incompletezza dell’essere necessaria per la dinamica del
desiderio la cui soddisfazione è, quindi, il motore delle possibilità
trasformative umane. Tempo e rapporti soddisfacenti sono necessari perché la
piena realizzazione giunga a compimento, ma essa è già, in potenza, nella sua nascita
“sana” che è fondamento poi di ogni percorso psicoterapeutico che si ponga
l’obiettivo di curare la malattia provocata da rapporti deludenti e dalla
propria reazione pulsionale di anaffettività contro di essi.
La “lunga battaglia contro la bibbia”, da sempre rivendicata
da Fagioli e ribadita ancora quel 13 dicembre, si fondava sulla sua basilare
avversione per la formulazione nota come “peccato originale”, struttura
portante della concettualizzazione cristiana che «intacca
la natura umana», trasmessa di generazione in generazione
«in una condizione decaduta», come recita ancora oggi il catechismo
della Chiesa cattolica. Condizione risolta non tanto dalla sterile ritualità
del battesimo, quanto dalla “morte” del corpo, cui il credente è chiamato ad imitatio
Christi, per poter risorgere alla vera vita che sarebbe solo quella dello
spirito; annullamento che ha costituito la fonte della plurisecolare
sessuofobia cristiana, a cui la donna ha pagato l’altissimo prezzo della
propria demonizzazione.
Annullamento del corpo non condiviso, peraltro, dagli altri due
monoteismi - ebraismo ed islàm - che indicano nelle “norme di purità”,
strettamente legate ad attività corporee naturali, un elemento essenziale del
comportamento corretto (ortoprassi) del praticante.
Il termine che definisce la falsa verità del cristianesimo è allora
quello di mancanza originaria, che è ideologia, non verità umana, variamente
modulata poi dalle culture “alte”. Un originario minus che rende concettualmente
improponibile la cura della malattia mentale: se è così che si nasce, che altro
fare se non adattarsi alla realtà di perenne “controllo” cosciente di quel mostro
interno impregnato di inestinguibile tendenza al male? L’inconscio perverso ha
una lunga storia. E adattarsi non è solo la logica (reazionaria) della
teologia, lo è anche di tanta psicanalisi, di tanta filosofia.
Ma il tema su cui si era orientato il dibattito del 13
dicembre andava oltre il concetto di colpa per toccare la questione clou di ogni riflessione sul pensiero
religioso: qual è stato il momento storico in cui le mille figure degli déi
immanenti del politesimo furono soppiantate dall’ingombrante dio unico,
assoluto e trascendente, che conosciamo?
La domanda apparentemente ingenua dello psichiatra allo storico
dell’antichità, su chi avesse “inventato” il monoteismo, rivelava - oltre alla
sua inesauribile curiosità per tutta la storia del pensiero umano - la portata
tutt’altro che scontata di una ricerca estremamente complessa. Se la vulgata
diffusa indica nella Bibbia ebraica il momento primo della sua formulazione, in
realtà una minoranza agguerrita di studiosi afferma che in nessuna pagina del
testo biblico c’è quel monoteismo che ci si aspetterebbe. Al più una
monolatrìa: il culto per un unico oggetto, pur nella consapevolezza
dell’esistenza di altri oggetti di culto.
Per indagare sulle vere origini del monoteismo è stato allora
necessario chiarire il concetto di spirito
assoluto che Carlo Enzo, il biblista controcorrente citato proprio da Fagioli
nel corso dell’incontro, aveva indicato nel Theós
greco, negando che l’Elohim biblico
ne condividesse il senso[3].
E questo fu l’approfondimento successivo; un’analisi accurata dei testi
dell’esegeta veneziano che mi portò a rispondere, con un saggio pubblicato ne Il sogno della farfalla[4],
all’inaspettata quanto gradita sollecitazione di Massimo Fagioli.
Riproposi poi direttamente anche a Carlo Enzo l’interrogativo
del 13 dicembre sulle origini del monoteismo e la sua risposta lapidaria fu pubblicata
proprio su Left[5]:
«esso si forma negli ambiti della filosofia e della teologia estranei alla
mentalità biblica». Non era quindi nel testo biblico che andava cercata la
prima affermazione monoteistica quanto in secoli successivi, forse negli ambienti
minoritari del giudaismo ellenizzato, dove apparvero i primi cenni, labili e
contraddittori, di una creatio ex nihilo
che indicherebbe la presunta creatività dello spirito definito assoluto in
quanto dotato di vita propria, separata ed autonoma dall’esistente. Pensare delirantemente
un nulla originario costituì l’idea nuova capace di immaginare astrattamente un
ente trascendente la materia, concetto che solo nel cristianesimo del II secolo
ebbe poi la strutturazione dogmatica destinata a imporsi e a svilupparsi nelle
imperscrutabili speculazioni di mistici medievali come Meister Eckhart: Dio
crea dal nulla, ma è «Quadruplice è il
senso della frase, dice Eckhart, quadruplice il senso del nulla. Il primo, quello
decisivo e più dirompente, identifica Dio con il nulla (...) Il secondo, più ortodosso, è che chi vede
Dio non vede “null’altro”. Il terzo, che ne consegue, è che vedere null’altro
che Dio significa vedere null’altro che Dio in qualsiasi cosa. Il quarto è che
qualsiasi cosa, dunque, è luogo del nulla, è nulla»[6]
.
Ogni cosa dunque è nulla, ma come è stato detto “l’annullamento
del mondo è annullamento di sé”[7]:
questa è la tragica essenza del monoteismo.
Il nulla,
quindi, la cui storia è stata approfondita in altra occasione[8], a differenza dei politeismi che rimandano a ipostasi di qualità umane
reali personificate in enti simbolici, è irrealtà che diventa paradigma
essenziale per la definizione del dio unico: l’invenzione astratta di una mente
impazzita per la pulsione di annullamento
che impone di credere all’inesistente piuttosto che pensare l’esistente. È
logico che fosse poi annoverato da Fagioli fra le quattro piaghe che nella storia hanno devastato la ricerca sulla realtà
umana. Più esattamente l’annullamento è la madre di tutte le piaghe: la causa
prima di ogni malattia mentale. Ritorna, articolato diversamente, il tema dell’inconciliabile,
radicale differenza tra la mancanza
originaria di ogni ontologia negativa e la fisiologica carenza della nascita che Fagioli ha puntualizzato
teoricamente regalando la possibilità di un’infanzia felice, libera di svilupparsi
nella sua sana naturalità e non più soggetta alla violenta negazione della
nascita. Una geniale rivoluzione del pensiero che fondando una nuova
antropologia sovverte millenari assetti culturali e sociali ritenuti intoccabili
dai freddi gestori della cultura dominante.
[1] Pubblicato su Left, 01.04.2017. Modificato il
09.04.2017.
[2] M. Fagioli (1980), Bambino donna e trasformazione dell’uomo, L’asino d’oro, 2013.
[3] «...nella cultura ebraica la parola Dio non esiste.
Esiste invece la parola "Elohim" che faceva tutt'uno con il popolo
(...) Che cos'è l'Elohim della Torah se non il popolo stesso che si è dato la
sua costituzione, le sue leggi, i suoi imperativi morali?». Quindi il racconto
della creazione non riguarda né l'uomo né la natura? «Creazione qui non
significa creare dal nulla, come appunto potrebbe fare un Dio. Creare è
progettare un mondo nuovo, un uomo nuovo». Ma dire che ogni popolo ha il suo Elohim
non significa limitarne l'assoluto? «L'obiezione avrebbe senso se traducessimo
"Elohim" con "Theos", giacché Theos è l'assoluto. Ma l'Elohim non è l'assoluto», A. Gnoli, Rileggere
la Bibbia, “La Repubblica”, 28.12.2012,
Cfr.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2012/12/28/rileggere-la-bibbia.html
[4] Il problema
dell’unicità e della trascendenza di Dio nella Bibbia ebraica, “Il sogno
della farfalla” n. 2/2014.
[5] F. Della Pergola, La
Bibbia svelata, intervista a C. Enzo, “Left” n. 22/2014.
[6] S. Givone, Storia
del nulla, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 56.
[7] A. Masini, intervento al VI Congresso nazionale della
Società italiana di psicopatologia.
[8] Cfr. Il Dio del
Nulla in www.academia.edu/26596299/Il_Dio_del_Nulla
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