09/06/11

Dalla fanciulla persiana alle vergini dell'Islam


Noi lo sappiamo da sempre, per via di una concezione antica che prevede un resoconto finale, preludio ad un finale giudizio: prima o poi si deve morire e prima o poi, ci hanno sempre detto così, dovremo rendere conto delle nostre azioni. 


Il che suona parecchio minaccioso, anche se si è voluto poi indorare la pillola con promesse di eterne beatitudini rigorosamente asessuate nel mondo cristiano, più eccitanti in quello islamico per via delle famose settanta vergini a disposizione di ogni buon musulmano.

“…il sociologo tunisino Abdelwahab Bouhidba legge il Corano e le hadith, i detti del profeta Maometto, come una sintesi di spirito ascetico e passione fisica. ‘Il paradiso nell’islam è un luogo di piaceri sessuali’ (…) le pagine dedicate al regno dei cieli descrivono un giardino di delizie dove tutti gli appetiti sono centuplicati. Ogni Eletto mangia e beve a volontà e dispone di settanta alcove con settanta vergini dal corpo così diafano e trasparente che si possono vedere le ossa’”(1).

Esiste una qualche diatriba circa l’esistenza o meno nella cultura islamica delle settantadue vergini, ma “secondo l’Islam - afferma Sheikh Abdul Hadi Palazzi (2) - vi sono settantadue mogli per ciascun credente che è ammesso in Paradiso. La prova è nel hadith trasmesso da at-Tirmidhi nella raccolta ‘Sunan’ (Vol. IV, capitoli su ‘Le caratteristiche del Paradiso così come descritte dall’Inviato di Allah’, Capitolo 21: “La ricompensa minima degli abitanti del Paradiso”, hadith n. 2687). La medesima tradizione è altresì citata da Ibn Kathir nel suo Tafsir (Commentario coranico) a Surah ar-Rahman (55), ayah 72, ed il suo significato è: “Ha riferito Daraj Ibn Abi Hatim che Abu al-Haytham Abdullah Ibn Wahb ha narrato da Abu Sa’id al-Khudhri, che ha sentito il Profeta Muhammad (su di lui la benedizione di Allah e la pace) dire: ‘La minima ricompensa per gli abitanti del Paradiso è una dimora con  ottantamila servi e settantadue mogli’. Che le settantadue mogli siano vergini è provato dal ayah 74 della stessa Surah, il cui senso è ‘Né uomo, né jinn le ha mai toccate prima’”.

In effetti nel Corano si dice “Vi saranno colà quelle dagli sguardi casti, mai toccate da uomini o da dèmoni” (3) e più oltre “Quale dunque dei benefici del vostro Signore negherete? E [fanciulle] pie e belle. Quale dunque dei benefici del vostro Signore negherete? E fanciulle dai grandi occhi neri (4) ritirate nelle loro tende. Quale dunque dei benefici del vostro Signore negherete? Che nessun uomo o demone mai han toccato”.

Il numero totale delle fanciulle non è definito nel Corano, ma esse fanno parte della tradizione religiosa, cioè del/della
Dīn. Vale a dire, appunto, della religione perchè “La parola araba Diin è tradotta con religione”(5); o meglio, generalmente significa ‘religione’, ma se entriamo un po’ più a fondo nel significato di questo termine - Diin o Dīn - troviamo qualche variante di significato: “Dīn, I. Definition and general notion. It is usual to emphasize three distinct senses of din: (a) judgment, retribution; (b) custom, sage; (c) religion. The first refers to the Hebraeo-Aramaic root, the second to the Arabic root ddna, dayn (debt, money owing), the third to the Pehlevi dēn (revelation, religion)”(6).

Nell’Enciclopedia dell’Islam sono messi in luce tre diversi significati di dīn: giudizio-retribuzione, oppure consuetudine-usanza. Ed infine anche ‘religione’ come ‘rivelazione’.
Il testo consultato ci avverte che il primo significato si connette con una radice Ebraico-Aramaica. In effetti il termine ebraico dath (aramaico dat) (7) che è la traslitterazione in caratteri latini della parola che significa - appunto - religione, ha un senso più vicino a “editto, legge, decreto” (8) e deriva dall’avestico (un’antica lingua iranica) dāta (9) che ha lo stesso significato ed anche lo stesso senso. Sono tutti termini che ci portano verso un significato di ‘religione’ come complesso di regole da rispettare, ma anche dal cui rispetto ci si può attendere una qualche forma di ‘retribuzione’. Questa particolare forma di accordo fra uomini e Dio, esistente già nell’antico Israele (ma era cultura diffusa nel Vicino Oriente antico) viene chiamato ‘Teologia del Patto’: esisteva un accordo vincolante per entrambe le parti, un patto tra Dio e gli uomini, stabilito in termini dalle caratteristiche legali e ratificato dal sacerdote che aspergeva con il sangue, cioè impegnava formalmente tramite un elemento ‘sacro’, sia il popolo che assisteva al rito sia il tabernacolo dove si supponeva fosse presente Dio (10).

Il popolo accetta di adorare quel particolare Dio (e non altri, siamo in fase enoteistica non ancora in pieno monoteismo: si riconosce cioè l’esistenza di più divinità, ma una particolare è ritenuta superiore alle altre e degna di culto. Nella fase monoteista ovviamente l’esistenza di altri ‘dei’ è radicalmente negata) e si aspetta che quel Dio si impegni attivamente nella protezione del popolo stesso.

La ‘retribuzione’ era costituita appunto in questa protezione ultraterrena, ed era tale da tramutarsi rapidamente in una colpa da pagare. Come ogni successo (una vittoria militare, un buon raccolto, l’abbondanza di piogge) era segno della benevolenza divina (quindi della conferma indiretta che il popolo si era ‘comportato’ bene rispettando il Patto), così ogni dramma sociale (sconfitta, catastrofe climatica o ambientale, invasioni, carestie eccetera) prendeva immediatamente il significato di un abbandono di Dio (11), interpretato come conseguenza della rottura dell’accordo da parte del popolo (in genere il tradimento dell’Alleanza con un cedimento al culto di altre divinità).
In termini metafisici, invece, la somma algebrica dei meriti e delle colpe veniva rimandata alla fine dei tempi, nel Giorno del Giudizio: in arabo Yawm al-Dīn, dove Dīn assume qui il significato di ‘Giudizio’ (12).

La seconda lettura data al termine dīn ha le caratteristiche di una qualche forma di convenzione sociale da rispettare. Corrisponde all’idea di sottomissione alle consuetudini per evitare il caos, l’anarchia, connettendo “il termine all’antica muruwwa araba, l’insieme di prescrizioni che fondano il buon comportamento umano. Trasferito nel contesto coranico, dīn diviene l’equivalente del retto cammino che conduce l’uomo a Dio”(13) .
Non siamo molto lontani dalla prima definizione in quanto “questo livello semantico deriva dall’antica radice araba dāna, yadīnu, dayn, che evoca il senso di contrarre un debito o di dare credito”.

Fino a qui siamo nel contesto un po’ contabile del dare/avere, cosa diffusa – almeno sottotraccia – in tutte le religioni; il pio credente, pieno di afflato mistico, si presenta sempre vantando proprie caratteristiche di bontà, generosità e disinteresse, ma il pensiero religioso trae origine, è noto, da una profonda angoscia per la propria finitudine umana, cui si cerca di porre rimedio con la fede. E’ quindi un intimo “tornaconto” personale - trovare lenimenti per il proprio malessere - la prima motivazione dell’uomo religioso (14).

Solo con la terza interpretazione ci avviciniamo al significato proprio di ‘religione’ come rivelazione, ma con precise caratteristiche identitarie. Più esattamente “…dīn è sempre più associato alla religione della nascente comunità musulmana”. Prende cioè il senso della formazione, attraverso un’idea metafisica di rivelazione, di un’identità collettiva, in origine nazionale - secondo lo schema giudaico - e successivamente sovranazionale e più vicina alla tradizione universalistica cristiana. Ed è questo il significato maggiormente diffuso tra gli autori e i commentatori arabi.

Ma l’Enciclopedia Islamica ci informa anche che questo termine trova un riferimento in lingua pahlavi (che è una lingua persiana di epoca sasanide, cioè immediatamente precedente l’avvento dell’islam) nella parola dēn che a sua volta deriva dall’avestico (lingua più antica del pahlavi) daēnā. Come abbiamo visto anche la parola ebraica dath ha una derivazione dall’avestico, il che ci fa intuire che nell’Iran preislamico, forse agli albori dello zoroastrismo, si siano formati i primi germi di un pensiero che ha ampiamente influenzato ciò che siamo abituati a considerare ebraico, arabo o, più genericamente, ‘semitico’.

Per capirne di più dobbiamo allora consultare l’Enciclopedia Iranica che ci porta, a sua volta, di fronte ad un’altra varietà di significati fra loro simili, ma non identici: “Dēn: theological and metaphysical term with a variety of meanings: “the sum of man’s spiritual attributes and individuality, vision, inner self, conscience, religion”(15). E la lettura ci porta ad un’ulteriore definizione “Dēn is not only divine wisdom but also its emanation as innate human wisdom”: dēn non significa solo saggezza (wisdom) divina, ma anche innata saggezza umana, per quanto derivante da un’emanazione del divino; ‘innata’ è un termine che cattura la nostra attenzione, ma ancora di più ci incuriosisce un’altra definizione: “The daēnā/dēn represents a person’s deeds (kunišn), his inner self”.
 
Due termini sono indicati insieme, daēnā/dēn, e viene loro attribuito il senso di ‘azioni’ e di ‘propria interiorità’; approfondiamo perciò la ricerca andando ad osservare più da vicino il termine daēnā, che pretende ulteriori indagini perchè, anche in questo caso, ci si presentano vari significati possibili.
In the Avesta (...) daēnā in the sense of “conscience” is one of the five spiritual faculties, together with axw “vital strength,” baoδah “perception,” urvân “soul,” and fravaši “the everlasting and heavenly tutelary of material beings” (16). Uno dei significati di daēnā è ‘coscienza’, che corrisponde ad una delle cinque facoltà spirituali insieme con ‘forza vitale’, ‘percezione’, ‘anima’ e un misterioso ‘immortale tutore divino degli esseri materiali’ chiamato fravaši.

La questione anziché chiarirsi sembra complicarsi ulteriormente, in quanto convivono nella definizione caratteristiche ‘spirituali’ con altre - come la ‘forza vitale’ o la ‘percezione’ - che alla sensibilità moderna sembrano molto umane e poco ‘trascendenti’. Ma non dobbiamo dimenticare che tutto ciò che non era immediatamente comprensibile attraverso i cinque sensi, rientrava anticamente in quell’ambito vasto, lattiginoso, dagli incerti confini, definibile solo attraverso il termine ‘sacro’. In questa sfera troviamo fianco a fianco, indistinti, elementi umani ed elementi considerati ‘altro’ dall’umano, oltre ad un ampio ventaglio di figure di mediatori dalle caratteristiche più o meno preterumane.

Non dobbiamo allora prendere di petto i termini daēnā/dēn che sembrano portarci in un ambito in cui è impossibile distinguere religione, coscienza, interiorità, azioni, cioè comportamento; l’interno dall’esterno, le facoltà umane da quelle considerate trascendentali, ma dobbiamo, con molta umiltà, tentare di sondare quella grande, complessa, affascinante e per certi versi ancora misteriosa cultura nota come zoroastrismo.

Una possibile direzione di ricerca ci è fornita da un grande orientalista, Alessandro Bausani, in un testo del 1951, Persia religiosa. Soffermiamoci solo su sette pagine di questo testo, centrale per lo studio dell’evoluzione religiosa persiana, perché qui ci sembra di intuire elementi antichi, ma di notevole importanza per una riflessione attuale sull’essere umano.

La chiave di lettura per entrare nella mentalità antica potrebbe essere quel misterioso tutore, immortale e divino, chiamato fravaši. L’autore scrive: “Studi recenti (…) sembra abbiano assodato che l’idea di fravaši è associata alla “forza difensiva eroica” e avrebbe in origine indicato la forza protettrice e difensiva che emana da un Capo, anche morto…” (17).
Più tardi il concetto che vede nel Capo la capacità postuma, ma ritenuta concretamente reale, di proteggere la comunità ed i singoli individui, va incontro ad una trasformazione: “Questa nozione originariamente aristocratica si sarebbe poi man mano “democratizzata”: ogni uomo ha allora avuto la sua fravaši che esercita la sua forza protettrice non solo per lui, ma a beneficio di tutti coloro che la invocano”.

Esisteva dunque un concetto arcaico, prezaratustrico, di fravaši, caratterizzato in senso potremmo quasi definire animistico, ma gli sviluppi successivi, la ‘democratizzazione’ della fravaši, portano ad una definizione più comprensibile alla mentalità moderna: “Le fravaši (…) sono un vero e proprio “doppio” trascendente degli uomini, passati, presenti e futuri. Anche i vivi hanno la loro fravaši, che in questo caso si avvicina anche - volendo continuare nei paragoni sempre pericolosi - al concetto del nostro angelo custode”.

L’idea di “forza protettiva emanata da un Capo” si trasforma così nel “doppio” - non visibile - di ogni uomo. Siamo ancora nel campo di una possibile raffigurazione mentale di un ‘altro’ se stesso, derivante dal pensiero che l’essere umano non è solo realtà materiale visibile. Può essere anche ‘sogno’, vale a dire immagine di esseri viventi, di storie, di avvenimenti reali tanto quanto il vissuto materiale, ma che scompaiono all’improvviso con l’aprire degli occhi fisici al risveglio. Può essere anche fantasia. Pensare questo mondo (e se stessi in questo altro mondo) come ad un doppio di sé non appare come idea aprioristicamente religiosa. Nemmeno una figura simile al cosiddetto ”angelo custode” è interpretabile meccanicamente come elemento religioso; il nome di ‘angelo’ in fondo significa ‘messaggero’ o ‘intermediario’ fra il mondo della materia e il mondo immateriale; una parte del sé in comunicazione con il mondo del non visibile. Quindi, pur preludendo ad una visione religiosa, non apparterrebbe appieno - ancora - al mondo trascendente.

Poi però leggiamo: “Ahura Mazda mise le fravaši degli uomini (non ancora in carne) in presenza di una libera scelta che determinerà il loro destino: restare cioè nel mondo celeste al riparo dell’assalto di Ahriman (il Dio del Male) o scendere e incarnarsi in corpi materiali per combattere Ahriman nel mondo terrestre. Le fravaši alla proposta di discendere sulla terra risposero “sì”. Avviene così uno sdoppiamento; ora, in questo mondo terrestre, il vero uomo è la sua fravaši, il suo Io angelico che è nel contempo il suo Destino e il suo più vero doppio trascendente…

Qui dovremmo proprio cominciare a pensare in termini di ‘anima immortale’ che scende ad incarnarsi in corpi materiali (e mortali) e prendiamo atto che, in questo momento, “il vero uomo è la sua fravaši”. Il ‘vero’ uomo, la verità umana, adesso è in una dimensione trascendente il materiale; il corpo sembra definito unicamente come contenitore della verità umana. Viene concettualizzata quella che appare come una scissione simile alla (quasi contemporanea ?) proposta culturale greca (18).

Una frase dello studioso, infatti, ci indirizza in questo senso: “E’ molto probabile che la fravaši guerriera sia stata assunta nello zoroastrismo come angelo emblematico dell’anima in quanto sceglitrice fra bene e male
E l’etica della ‘scelta’ è tipica del pensiero di Zaratustra; parla di consapevolezza, di libero arbitrio. La fravaši,‘presenza’ protettrice a carattere tribale in cui “sono riconoscibili aspetti guerrieri connessi ai valori epici e marziali di comunità bellicose, uniti alle concezioni sull’immortalità” (19) si trasforma in capacità intima, ma consapevole, di scegliere tra il bene ed il male. Esce dal mito, dall’ombra dei padri, per entrare nel mondo dell’etica.

E, in un rapporto molto complesso con la fravaši, ci appare di nuovo l’immagine della daēnā: “Sulla daēnā esiste una ricchissima letteratura. Essa non è la Morte né l’Angelo della morte. E’ piuttosto la personificazione dei pensieri, delle parole e delle azioni buone o cattive compiute dall’uomo, la custode dei meriti e dei demeriti accumulati nel tesoro celeste, il “doppio” trascendente dell’anima, in conclusione la vera coscienza dell’uomo. Sulle modalità del suo incontro con l’anima del giusto ci istruisce lo Hādōxt Nask, ovvero il XII Yašt, un poema escatologico molto antico che risale sicuramente ad un archetipo avestico” (20). In questo testo antico si parla dell’incontro dopo la morte tra l’anima e la daēnā.

L’anima del giusto passa il Cinvat, il ponte che unisce la terra al cielo su cui dovevano transitare le anime dei defunti per affrontare il giudizio finale, ed ecco che “…alla fine della terza notte, quando appare l’aurora, l’anima del giusto crede di essere tra piante e di respirare profumi. Sembra che un vento odoroso, più odoroso di ogni altro, dalle regioni meridionali soffi verso di essa. E l’anima del giusto sembra respirare quel vento e dire a se stessa: Donde soffia questo vento, che è il più profumato di quelli che le mie narici abbiano mai respirato ?” (21).

Portata da un profumato vento meridionale, la daēnā gli appare “sotto forma di una giovane fanciulla, bella, raggiante, dalle bianche braccia, robusta, dal viso grazioso, slanciata, dal bel seno vigoroso, di nobile sembianza, di rango elevato e glorioso, quindicenne all’aspetto, di forme più belle della più bella di tutte le creature”.

E quando lui, il giusto, le chiede “chi mai ti ha amata per avere tu questa maestà, questa bontà, questa bellezza, questo profumo, questa forza con cui mi appari ?”, la risposta della fanciulla suona struggente “o giovane di buon pensiero, di buona parola, di buona azione, di buona visione… tu mi hai amata per questa maestà, questa bontà, questa bellezza, questo profumo, questa forza con cui mi vedi apparire (…) così, amabile, tu mi hai resa più amabile; bella, tu mi hai fatto più bella; desiderabile, più desiderabile; seduta in un luogo eccelso, tu mi hai fatto sedere ancora più in alto…”.

Eccola, la fanciulla persiana.

Anche se “…in testi ancora  più tardi (Vendidad 10.18 e 5.21) daēnā e urvân (spirito, anima) sono quasi sinonimi” (22) ancora il processo di appiattimento non pare compiuto: “…daēnā non significa propriamente ‘anima’ quanto ‘religiosità’ in senso astratto, anche se la dualità del senso di daēnā è come quella delle entità Amesha Spenta che sono sia virtù personali sia aspetti divini”.

Sia la daēnā che gli Amesha Spenta (23) dello zoroastrismo indicano entità che sono allo stesso tempo ‘virtù personali’ e ‘aspetti divini’. Si tratta quindi di ipostasi delle qualità umane, un modo di concretizzare concetti astratti, di indicare le caratteristiche etiche o morali dell’uomo, non avendo a disposizione strumenti ‘logici’ per concettualizzarle; da qui la trasposizione in “aspetti divini”, cioè appartenenti ad un’altra dimensione, ma pur sempre con caratteristiche proprie dell’umano.

La daēnā infatti parla chiaro: “Io sono i tuoi retti pensieri, le tue rette parole, le tue rette azioni che tu hai pensato, detto, fatto”. Va oltre la materialità percepita, ma non ne trascende; forse, più chiaramente, indica le intenzionalità reali nascoste nelle parole e nelle azioni. E in questo ‘oltre’ arriviamo forse a comprendere meglio il segreto di questa misteriosa entità, la cui problematicità sta nella doppia valenza di elemento psicologico e di elemento religioso insieme, problema che gli studiosi hanno sempre trovato molto difficile da dirimere “…è abbastanza singolare per una mentalità del XX secolo che una stessa parola possa significare ‘religione’, il ‘doppio dell’anima’ e una ‘fanciulla’ che più o meno ambedue le rappresenta”.

Teniamo presenti questi tre termini: ‘religione’, ‘doppio dell’anima’ e ‘fanciulla’ che rappresenta sia l’una che l’altra; poi proviamo ad orientarci.

Il termine daēnā, come abbiamo visto, si connette alla radice dēn che significa religione’, ma “…dēn (che si è troppo univocamente tradotto sempre con ‘religione’) ha anche il valore ben più attivo e personale di ‘rivelazione’ (…) così le buone e le cattive opere sono daēnā cioè ‘rivelazione dell’anima’ dell’uomo”. Ma “più comunemente l’etimologia si riporta alla radice di ‘vedere’ (…) sia come ‘facoltà di vedere’ sia come ‘oggetto di visione’”.

Dēn ha valore di ‘rivelazione’, più che di religione in termini moderni. Valore cioè di svelamento, di rendere manifesto ciò che è occultato; infatti l’etimologia riporta alla ‘facoltà di vedere’. Ci sembra di poter escludere che il significato attenga ad una visione fisica, parliamo perciò di una capacità di vedere qualcosa che è latente al comportamento visibile; qualcosa che è anche ‘oggetto di visione’. La daēnā quindi è ‘vedere’ ed ‘essere visto’ nella dimensione più intima e profonda dell’animo umano. Questo sembra essere il senso vero del primo dei tre termini: ‘religione’.

Andiamo avanti: l’anima del giusto, quando incontra la daēnā, si rapporta ad una sua propria dimensione latente; la fanciulla si esprime chiaramente “io sono le tue rette opere…”. Forse ci avviciniamo a comprendere la differenza: ‘anima del giusto’ sembra attenere ad una dimensione etica. Infatti la fravaši si caratterizza in epoca zaratustrica, come capacità di ‘scelta’ fra il bene e il male, come qualcosa di vicino al libero arbitrio e sembra quindi connettersi alla sfera cosciente; sembra essere l’anima in senso etico, la volontà che sceglie. La daēnā appare come più prossima invece al contenuto latente della volontà cosciente stessa. Ne svela l’intenzionalità non manifesta. Se la fravaši è l’anima, la daēnā appare come l’anima dell’anima, il contenuto del contenuto: il ‘doppio dell’anima’.

Resta infine la ‘fanciulla’ che “più o meno” le rappresenta entrambe. Perchè una ‘fanciulla’ ? Perchè la ‘più bella e la più buona fra le fanciulle’ ? Se ci confrontiamo con una dimensione che parla del
pensare, dire, agire’, perchè tutte queste caratterizzazioni sono in positivo, quando abbiamo letto sopra che “le buone e (ma anche) le cattive opere sono daēnā cioè ‘rivelazione dell’anima’ dell’uomo” ? Per quale motivo una bella e buona fanciulla dovrebbe rappresentare anche le ‘cattive opere’ dell’anima di un uomo?

Infatti non è così. Se la fanciulla è bella il comportamento la fa ancora più bella, in caso contrario essa si sciupa e “…un vento freddo e puzzolente che viene dal nord preannuncia l’arrivo di una giovane orribile e repellente, dalla voce stridula e assordante che, piena di rancore, gli rinfaccia di averla ridotta in quello stato deplorevole…” (24). L’immagine femminile, abbrutita dalle ‘cattive opere’, si ribella piena di rancore al colpevole, accusandolo con durezza. Questo passo è importante perché ci aiuta a distinguere l’immagine della daēnā dalle successive elaborazioni del concetto di anima nei tre monoteismi posteriori. Ad eccezione di un’opera apocrifa del giudaismo alessandrino (con interpolazioni cristiane) del I sec. d.C., Il testamento di Abramo, unica nel suo genere, nella cui originale rappresentazione della Morte, bellissima per i giusti ed orribile per i peccatori, è stata individuata una rielaborazione tarda dell’immagine della daēnā, in  essi l’anima non si trasforma, non diventa “la più bella delle belle” oppure “orribile e repellente”; che sia elevata al Paradiso o precipitata in una delle varie forme immaginate di Inferno, può gioire o soffrire, avere un aspetto ‘beato’ o ‘contorto’ nel tormento, ma resta sempre uguale a se stessa, un ‘altro’ speculare, trascendente ed immutabile, della realtà umana. Nell’Hādōxt Nask invece ci viene descritta una trasformazione dell’immagine a seconda del comportamento umano, trasformazione che rimanda all’essere “interno”, alla dimensione interiore non cosciente. Ad una immagine interna.

La ‘bella fanciulla’ quindi rappresenta l’immagine interna dei ‘giusti’ che trovano spiegazione del loro retto pensare e agire proprio nell’avere a priori, in sé, una bella immagine di giovane donna. Così come il ‘non-giusto’ ha un’immagine repellente. Il giusto allora non è tale per il “retto agire”, non è giusto in quanto capace di scegliere eticamente il bene con un atto di volontà cosciente, ma è tale in quanto ha una ‘bella fanciulla’ come sua propria immagine interna. L’essere ‘giusto’ sembra essere la conseguenza dell’avere in sé un’immagine interna di bella fanciulla.

È questa daēnā, astrazione personificata attestata nel pensiero di Zaratustra quella che ha modificato in senso zoroastriano la più guerriera fravaši”(25); l’idea protettiva, piena di bellicosità, dell’animo primitivo sarebbe stata modificata in senso etico quando il pensatore ha elaborato il concetto di daēnā. Cioè quando ha immaginato presente, accanto o nascosta dietro alla volontà cosciente, un’immagine interna femminile. La paura e il bisogno di protezione, delegato alla forza guerriera emanata da un ‘padre’ morto, lascia il campo alla possibilità di agire eticamente dell’individuo. La paura si dilegua facendo apparire un essere umano non più rannicchiato e tremante, ma eretto e consapevole. Sembrerebbe una svolta verso una maggiore razionalità nel rapporto con il mondo, ma non è così; l’immagine femminile è presente, non è sparita ed è lei che ‘fa’ il giusto. E’ l’immagine interna, non la volontà cosciente, che determina la scelta etica ed il comportamento.

Purtroppo, come abbiamo visto “…in testi ancora più tardi (…) daēnā e urvân (spirito, anima) sono quasi sinonimi”. La fanciulla persiana, come la sua omologa greca Psyche, non sappiamo quando (26), è stata appiattita sul concetto tutto spirituale di anima incorporea.

Forse si spiega così il percorso criptico dei termini che abbiamo analizzato. Da un’idea affascinante di ‘immagine interna femminile’ (daēnā) legata ad un concetto di ‘vedere psichico’ (dēn), per quanto già inserita in un contesto di giudizio ultraterreno, inesorabilmente, la cultura orientale sembra essere scivolata verso lo spirituale (urvân) fino al concetto islamico di ‘religione’ (dīn) come viene inteso attualmente, con le sue pene post mortem, inequivocabile segno dell’esistenza, nel pensiero, di un’anima immortale, ma anche con le sue graziose vergini paradisiache.

Donne, le urì, in premio postumo a fronte di un comportamento retto e pio (27). Già meglio - quantomeno un’ipotesi un po’ più gradevole - rispetto al prevalere nella cristianità della pura spiritualità, ma pur sempre un’impostazione che vede le belle fanciulle messe in palio, sempre gradevoli d’aspetto, sempre desiderabili, ma anche sempre indifferenti alle traversie terrene: non c’è una loro trasformazione, non c’è traccia di sensibilità, non c’è mutamento a fronte del comportamento umano. Possono costituire il premio oppure no. C’è un distacco tra l’essere umano e le vergini coraniche che, pur nella persistenza di un’immagine femminile, parla di fredda astrazione.

Più seducente delle vergini coraniche appare perciò la fanciulla persiana da cui pare che quelle derivino, attraverso uno di quei misteriosi meandri che fanno affascinante la storia umana: “Secondo Bausani il motivo islamico delle urì, le fanciulle celesti promesse ai beati, è stato influenzato dall’idea della daēnā” (28).

Se nell’Islam si spera in una ricompensa ultraterrena costituita dalle splendide vergini a fronte di un ‘buon’ comportamento in terra, “per il pio zoroastriano ogni buon pensiero, ogni buona parola e ogni buona azione hanno principalmente lo scopo di rendere più bella e più splendente la propria daēnā” (29); non siamo nell’alto dei cieli, siamo qui, in terra, e qui si parla di una caratteristica assolutamente umana, anche se non immediatamente visibile.

E’ un’immagine interna che l’uomo dell’antica Persia sa di avere e che tende con il suo “buon pensiero”, con le sue “buone parole” e “buone azioni” a rendere sempre migliore; il suo comportamento è obbligato dall’esigenza assoluta di avere, in sé, un’immagine di adolescente che sia “la più bella fra le belle”, perché è l’immagine femminile che “fa” il comportamento ed il pensiero umano, che non può essere che onesto, retto, pulito. Ed essere puliti può non derivare necessariamente da paura del castigo o dalla brama di una remunerazione nell’aldilà: possono non essere necessari minacce e premi. Si può affermare che anche senza minacce e senza premi l’essere umano può essere un ‘giusto’ se l’immagine interna femminile - non resa inesistente - conforma l’agire dell’uomo e lo obbliga, anche senza che ci siano obblighi a lui esterni (30), ad agire ‘giustamente’. La fanciulla persiana è immagine antica che parla di nuovo, oggi, per chi la vuole ascoltare.


Note

1) Francesca Paci, Sesso e Islam. Se settanta vergini vi sembran poche, La Stampa, 06.08.2005. A. Bouhdiba, La sessualità nell’Islam.
2) Guida dell’Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana. Naomi Ragen, A distanza: Vergini, Sesso e Paradiso, Jerusalem Post, 07.07.2001. Trad. it. A cura dell’ICCII. Cfr. http://www.amislam.com/vergini.htm
3) Il Sacro Corano, Sura 55 ‘Il Misericordioso’, versetto 56, poi 69-74.
4) “’Quelle bianche dai grandi occhi scuri’, questo è il significato del termine arabo ẖurî”; http://www.corano.it/corano_testo/55.htm
5) Ermete Mariani, Master in Studi sul Medio Oriente, Cultura dei Paesi Islamici, Introduzione al corso, Urbino, 2002, in www.uniurb.it/scipol/medor/profili/Mariani.pdf, che sottolinea l’importante differenza fra tariqa (la via mistica) e shari’a (le disposizioni di comportamento, la legge).
6) Louis Gardet, Encyclopaedia of Islam, vol. 2., pag. 253.
7) Daniele Garrone, Il popolo ebraico in epoca persiana: la nascita del Pentateuco, p. 203.
8) In questo caso parlerei della Legge ebraica nel senso dato a quello specifico insieme di codici di comportamento chiamati ‘norme di purità’, che presuppongono una categoria di pensiero incentrata sulla ‘contaminazione’ (puro/impuro) più che sull’etica (bene/male). Impostate nel corso del VI-V sec. a.C. durante il periodo persiano, sono sostanzialmente la struttura portante della Legge ebraica (Halakah) e si riflettono anche in quella islamica (Shari’a). Per quello che riguarda invece il codice chiamato Decalogo o Tavole della Legge è più legittimo individuarne le origini nello schema mesopotamico della ‘discesa’ delle leggi dalla divinità al sovrano ‘unto’. Vedi i codici di Hamurrabi o le raccolte di leggi sumeriche di Ur-Nammu. Sulle norme di purità si concentrò la critica del primo cristianesimo che le ritenne superate dalla fede nel Cristo risorto, mentre il decalogo, come è noto, vi fu accolto per intero, solo con qualche piccola modifica.
9) “Old Iranian term for ‘law’ attested both in Avestan texts (Old and Younger Av. dāta-) and in Achaemenid royal inscriptions” da http:// www.iranica.com/articles/search/keywords:Data
10) Altra cosa è la Teologia della Promessa, che implica un impegno benevolente di Dio verso il ‘suo’ popolo in virtù della ‘promessa’ fatta da Dio stesso al Re di Israele, a prescindere dal comportamento umano. Fra le due teologie esisteva fin da tempi remoti una differenza che ebbe poi vistose conseguenze dottrinali dalle notevoli ricadute storiche, rintracciabili anche nella separazione fra ebraismo e cristianesimo: la Teologia del Patto è intuibile nel rispetto formale della Legge (cioè del patto) da parte ebraica. La Teologia della Promessa si può leggere fra le righe della affermazione cristiana del peccato originale: se l’uomo è peccaminoso di natura si può salvare solo per una gratuita promessa divina, puntualmente avveratasi (dicono i cristiani) con l’incarnazione di Dio in un uomo, finalizzata alla redenzione. Sono teologie che fanno capo a due diverse valutazioni della ‘trasmissibilità della colpa’. Cfr. Paolo Sacchi, L’apocalittica giudaica e la sua storia e Storia del Secondo Tempio.
11) Qualcosa di simile si trova nel pensiero puritano: l’essere ricco è segno di favore divino che, a sua volta, è conferma del proprio buon comportamento. Essere povero è, al contrario, il segno manifesto della propria intima peccaminosità e cattiveria.
12) Cyril Glassé, Huston Smith, The new encyclopedia of Islam, p. 118.
13) Mohammad Ali Amir-Moezzi (a cura di), Dizionario del Corano, p. 706. Stessa fonte per le citazioni seguenti.
14) Affermazione un po’ banale; ricerca ben più approfondita sull’origine del pensiero religioso dalla pulsione di annullamento è stata fatta da Massimo Fagioli nella sua ampia teorizzazione.
15) http://www.iranica.com/articles/den. Anche le citazioni seguenti sono tratte da questo sito.
16) Avesta è il titolo dell’insieme dei testi sacri dello zoroastrismo.
17) Alessandro Bausani, Persia religiosa, pp. 65-72. Fino a nuova nota, tutte le citazioni seguenti sono tratte da questo testo.
18) Il pensiero orfico aveva elaborato la concezione che il corpo fosse peccaminoso di natura, in quanto nato - almeno secondo alcune interpretazioni - dalle ceneri dei Titani fulminati da Zeus. “… alcuni dicono che il corpo (sôma) è tomba (sêma) dell’anima, quasi che essa vi sia presentemente sepolta (…) e mi pare che questo nome gliel’abbiano posto quelli del seguito di Orfeo, poiché l’anima paga lo scotto di quelle colpe che deve pagare e che abbia questo involucro, ad immagine d’un carcere, per essere salvata”, Platone, Cratilo, dialogo fra Ermogene e Socrate. Il dualismo anima/corpo iranico è però “…un dualismo temperato che non si articola (…) sul piano dell’opposizione antinomica tra spirito e materia, ma su quello etico: due sono i poli entro i quali l’umanità a partire dai due Spiriti Gemelli (…) deve ‘liberamente’ scegliere: verità, ordine cosmico e menzogna”, Antonio Panaino, L’ecumene iranica e lo zoroastrismo, p. 40. In questa cultura quindi “il male non è mai identificato con la materia, come nel caso dei manichei”. R. C. Zaehner, Il libro del consiglio di Zarathushtra, p. 19; è opportuno ricordarsi questa particolarità del pensiero persiano nelle successive analisi del giudaismo postesilico. Il manicheismo è considerato un’eresia tarda dello zoroastrismo; siamo nel III sec. d.C. ed il profeta Mani aveva un’originaria formazione religiosa cristiano-siriaca.
19) Andrea Piras, I progenitori degli angeli. Gli angeli nella religione zoroastriana.
20) Fabrizio Pennacchietti, Lo specchio dell’anima e il manto di luce nel testamento di Abramo, p. 512.
21) Hādōxt Nask, trad. di E. Morano, Libero arbitrio e destino dell’uomo nella dottrina zoroastriana, in A. Bongioanni - E. Comba (a cura di) Libertà o Necessità ? L’idea di destino nelle culture umane pp. 85-97. Anche in F. Pennacchietti, cit. Lo stesso per le citazioni seguenti.
22) A. Bausani, cit. Stessa fonte per la citazione seguente. Qui: Urvân (pahlavi ruvân) è “l’anima come elemento contrapposto al corpo e che continua a vivere anche dopo la morte”, p. 31. Resta irrisolto il problema: più tardi quando ?
23) “I nomi di questi aspetti angelici, chiamati i Benefici Immortali (Amesha Spenta), sono già di per sé rivelatori del loro portato astratto e di determinate qualità spirituali che il sacrificatore deve realizzare: “il buon pensiero”, “l’ordine”, “il potere”, “la devozione”, “l’integrità”, “l’immortalità”, Andrea Piras, Messaggeri e inviati nello zoroastrismo, p. 20.
24) F. Pennacchietti, cit.
25) A. Bausani, cit.
26) Quello delle datazioni è forse il problema più complesso ed ostico quando si parla di zoroastrismo. L’impossibilità, ad oggi, di datare questi passaggi culturali ci impedisce di chiarire se il processo descritto è dovuto ad uno sviluppo autonomo o se è derivato dall’influenza di culture esterne. Certamente il concetto di anima immortale entra nel mondo giudaico, che non conosceva la scissione anima/corpo, solo dopo il contatto con i Persiani nel VI sec. a. C., segno che un certo processo di spiritualizzazione era già avvenuto: “Delicata è certo la questione su quanto e come abbia inciso sul giudaismo e sul cristianesimo la cultura religiosa iranica. Numerosi sono comunque i paralleli e le affinità che sono stati da tempo individuati tra testi religiosi iranici da una parte e gli apocrifi e gli pseudoepigrafi giudaici e la letteratura qumranica dall’altra”, F. Pennacchietti, cit. p. 517. E’ certo che un mutamento avvenne nel mondo giudaico tra V e IV sec. a.C.: “…la base del cambiamento è la nuova antropologia: l’uomo non finisce la sua vita con la morte, ma la può continuare in una dimensione diversa e migliore (…) L’interesse per le cose di questo mondo è bilanciato e forse superato da quello per l’aldilà, dove tutto ciò che è paura, sofferenza e morte non esisterà più. L’enochismo (corrente apocalittica giudaica sorta in opposizione alla “ortodossia” sacerdotale che rifiutava l’idea di immortalità dell’anima) fonda la religiosità moderna, visibile soprattutto nella derivazione cristiana”, P. Sacchi, Il problema “apocalittica”, in Credereoggi, XIV, LXXX, 1994. Un frase di notevole importanza ai fini della datazione di questo trattato è in un testo molto specialistico, titolato Hādōxt Nask 2, di Andrea Piras, laddove dice: “...i tratti descrittivi e narrativi di daēnā vengono esaltati mediante le titolature di Anāhitā (...) la cui venerazione era probabilmente estesa a tutta la comunità dei fedeli fin dall’epoca achemenide
”, p. 14. La frase ci dà due spunti: uno di ordine cronologico perchè trattando di ‘epoca achemenide’ parla del periodo tra VI e IV secolo a.C. e poi perchè - citando Anāhitā, la Madre Vergine Immacolata di Mitra - suggerisce il delicato punto di passaggio in cui la daēnā, immagine femminile molto concreta benché già descritta come un ente del giudizio post-mortem, potrebbe essere stata in qualche modo desessualizzata, nel sincretismo con la Vergine Madre, primo passo per diventare urvân, puro spirito. Superfluo aggiungere che nella figura della Anāhitā si può individuare la matrice della Madre-Vergine Immacolata del cristianesimo.
27) Per il premio (E [ci saranno colà] le fanciulle dai grandi occhi neri, simili a perle nascoste, compenso per quel che avranno fatto) o la punizione ([saranno esposti a] un vento bruciante, all'acqua bollente, all'ombra di un fumo nero), Il Sacro Corano, Sura 56, L’Evento, dove i “compagni della destra” sono innalzati al paradiso ed i “compagni della sinistra
sprofondati all’inferno (sic).
28) F. Pennacchietti, cit.
29) F. Pennacchietti, cit.
30) E qui si apre un’ulteriore interessante ricerca, forse impossibile: gli “obblighi esterni”, cioè l’insieme di codici religiosi che, nella mentalità dei tempi antichi non erano disgiunti da quelli sociali, civili e penali, diventano necessari dopo che l’immagine interna si è dissolta nell’anima trascendente ? E’ questo il motivo per cui diventa poi necessaria l’imposizione di regole, per cui già il termine avestico dāta significa ‘religione’ nel senso di ‘editto, codice’ ?  


Bibliografia

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Il Sacro Corano, Traduzione interpretativa in italiano a cura di Hamza Piccardo, revisione e controllo dottrinale Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia - UCOII - http://www.corano.it/corano.html

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