12/09/11

L'impuro, l'inconscio e il Male


Come è noto il paradiso terrestre (…) si trova nella letteratura sumera (…) da un poema che tratta il mito di Enki e Ninhursag (…) sappiamo che in un remoto paradiso (…) il ‘paese dei vivi’ non cioè degli uomini mortali, le dee nascono senza dolore; ma Enki mangia le otto piante fatte spuntare da Ninhursag, la grande dea madre che lo maledice, lo vota alla morte e scompare. Lì una parte del corpo di Enki, ferito, è la costola e la dea creata per guarire la costola è Nin-ti (la signora della costola e la signora che fa vivere perché ‘ti’ significa in sumero “costola” e “vita”): di questo gioco di parole nulla rimane, è ovvio, nel racconto biblico…”(1).

 
Con queste parole il grande filologo Giovanni Semerano descrive quella che è forse la più antica traccia storica dell’idea che l’immortalità possa essere stata perduta dagli umani per una ‘propria’ colpa. Per il dio Enki è stabilita la morte, punizione conseguente alla sua trasgressione; perde cioè, per una sua colpa appunto, l’immortalità. Ma la dea Nin-ti, una delle molte immagini femminili della cultura sumera, è infine creata per curare la sua costola ferita. Ad Enki, il trasgressore, colpevole e condannato, ma poi misteriosamente perdonato, è fatto dono della vita ed è la donna che si occupa di ridare la vita all’uomo: Nin-ti, la signora della costola, la signora che fa vivere

Dalla stessa cultura antica, attraverso varie versioni assire e babilonesi, è giunto fino a noi anche un altro racconto mitico, pieno di sconforto: “Gilgameš, dove stai andando? La vita che tu cerchi, tu non la troverai. Quando gli dèi crearono l’umanità, essi assegnarono la morte per l’umanità, tennero la vita nelle loro mani”(2). Parole che non lasciano scampo all’eroe mesopotamico andato caparbiamente alla ricerca della pianta dell’immortalità, trovata infine nel fondo del mare e poi sparita, in un attimo di distrazione, rubata da un serpente che strisciava nell’erba. A Gilgameš non restò che piangere affranto sotto l’implacabile realtà della finitudine umana.
 
Per mille, duemila anni forse, questi miti hanno percorso le pianure del Tigri e dell’Eufrate, attraversato il deserto siriano e si sono inerpicati fino sulle alture di Giudea, Galilea e Samaria, rielaborati e manipolati da chissà chi nel corso dei secoli, fino a che, fusi in un unico racconto, furono accolti nella tradizione popolare ebraica, nella forma che noi oggi conosciamo come il racconto biblico del ‘peccato originale’, un brano di fonte Jahwista (3) riportato nel libro della Genesi. Da lì è stato poi tramandato attraverso i successivi tremila anni, ma la manipolazione degli antichi miti ci dice che all’alba del IX secolo a.C. si pensava che la donna fosse stata creata dalla costola dell’uomo. Non era più la donna che dava la vita all’uomo, ma il contrario. 

O, come dirà Paolo di Tarso mille anni dopo, “non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo”(4). Sempre meglio di Pandora, la ‘prima donna’ della mitologia greca creata appositamente per punire l’umanità con catastrofi immani, ma comunque un ‘sottoprodotto derivato’ del maschio.
 
Così, da un banale gioco di parole in lingua sumera, già incomprensibile per gli antichi ebrei, ha incredibilmente preso vita la millenaria letteratura che descrive la femmina come essere inferiore; affermazione di una scala gerarchica di valori sociali durata fino ai giorni nostri. Ed è poi lei, la donna, che cede alla tentazione e conduce l’umanità alla rovina avendo dato ascolto al serpente che già aveva sottratto l’immortalità allo sconsolato Gilgameš. 

Con il brano biblico, all’ebraismo è stato addebitato l’onere di aver stabilito l’originaria peccaminosità, colpevolezza o istintiva perversità degli esseri umani. Ma questo è proprio vero ? 
In realtà gli studiosi ci dicono che nei mille anni di pensiero ebraico precedenti il cristianesimo non c’è traccia di alcun interesse, né di elaborazioni o riflessioni, inerenti questo tema, a parte naturalmente il testo appena citato: “il peccato originale non ha alcun ruolo nelle scritture ebraiche al di fuori di Genesi 2-3. Solo in opere tarde e rimaste al di fuori del canone ebraico il peccato di Adamo ha la funzione ‘fondante’ che avrà poi in Paolo di Tarso”(5). In una cultura sostanzialmente fondata sulla parola, sul commento e sull’interpretazione, questa assenza ci fa sospettare quantomeno una certa ambivalenza culturale. 

Sembra essere stata la successiva interpretazione cristiana (6) delle Scritture a dare una evidente preponderanza al racconto del secondo capitolo della Genesi, quello del ‘peccato originale’, mentre è sempre rimasto un po’ offuscato il primo capitolo dello stesso libro che, ad una lettura un po’ più attenta, ci riserva qualche sorpresa e ci spiega, forse, il ‘silenzio’ della tradizione ebraica precristiana su questo tema.
La creazione dell’uomo vi è descritta sinteticamente: “Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò. Dio li benedisse e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra (…) Poi Dio disse: ‘Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra e ogni albero in cui è il frutto, che produce seme: saranno il vostro cibo (…) Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona. E fu sera e fu mattina: sesto giorno”(7). 
Infine, come si sa, si riposò.

Balza agli occhi una notevole differenza con il racconto del ‘peccato originale’ che, grazie alla cultura dominante, ci è così familiare: nel primo capitolo della Genesi, di fonte Sacerdotale (o fonte ‘P’), non c’è alcun cenno al frutto proibito così come non c’è traccia della ‘costola’ di Adamo. Viene addirittura chiarito che ‘ogni’ frutto è cibo per gli uomini, specificazione che suona piuttosto chiaramente come spunto polemico. 

E se non c’è frutto proibito non può esserci trasgressione, né punizione, né cacciata da un paradiso di cui peraltro in questo capitolo non si parla affatto. In sintesi, non c’è traccia del peccato originale. Il primo capitolo della Genesi parla di una tradizione ideologicamente molto diversa da quella del secondo capitolo. Ma c’è altro ancora.

La fonte Jahwista, cui si attribuisce il ‘peccato originale’, parla anche della drammatica storia di Caino e Abele (8) e dopo la morte di questi, ci racconta che Adamo “si unì di nuovo alla moglie, che partorì un figlio e lo chiamò Set. Perché - disse - Dio mi ha concesso un’altra discendenza al posto di Abele, poiché Caino l’ha ucciso”(9).
 
Subito dopo inizia un altro capitolo, il quinto, di fonte Sacerdotale, che riprende daccapo il racconto a partire dalla creazione simultanea di uomo e donna e racconta poi del figlio della prima coppia, omettendo però qualsiasi riferimento ai fratelli ed al loro scontro mortale: “Questo è il libro della genealogia di Adamo. Quando Dio creò l’uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio e lo chiamò Set”(10). 

Da come è costruito il racconto Set pare proprio essere il primogenito di Adamo. 
E Caino ? E Abele ?
 
Sembrano indiscutibili le contraddizioni fra i brani di fonte Jahwista e quelli di fonte Sacerdotale che gli esegeti (sia ebrei che cristiani) hanno tentato di nascondere, a volte arrampicandosi sugli specchi, per evitare di dover ammettere che - se la Bibbia è parola di Dio - quel Dio appare ben poco coerente. Sono evidenti stratificazioni di ideologie diverse, raccolte insieme nello stesse Scritture sacre per motivi che gli storici tuttora dibattono. 

Queste contraddizioni segnarono una prima frattura interna al mondo ebraico; e non sarà la sola.
 
La tradizione Sacerdotale si contrapponeva nettamente a quella Jahwista precedente che aveva tramandato i più antichi miti mesopotamici, per quanto manipolati e resi più cruenti degli originali sumeri. Nella versione ‘P’ non c’è costola, non c’è peccato originale, non c’è l’uccisione di Abele; sembra che si voglia affermare un’altra verità, riscrivendo ogni racconto ed omettendo ciò che poteva essere imputato ad una originaria trasgressività/peccaminosità dell’uomo, ad un essere permeato dal Male.
 
Ma, forse, è lecito leggere nel testo sacerdotale una piattezza razionalizzante (11), una sorta di banalizzazione che fa sparire non solo il “male” ontologico, ma anche le grandi costruzioni mitiche dei tempi antichi che ruotavano attorno a domande angosciose sulla vita e sulla morte, a quel chiedersi che cosa è l’immortalità e che cosa aggredisce e distrugge quella pervicace resistenza che alla morte si oppone: quel misterioso distruttore della vitalità simbolizzato dall’immagine del serpente (12), che aveva sottratto l’immortalità a Gilgameš e che aveva fatto lo stesso con Adamo ed Eva. 

Tutto ciò sparisce nel racconto di origine Sacerdotale che proponeva anche, con il suo ideologo di riferimento (13), una categoria di pensiero che cercava un’altra strada di interpretazione antropologica; rifiutava l’idea che il peccato si potesse trasmettere di generazione in generazione, affermando al contrario la responsabilità individuale della colpa (14) - mentre nella tradizione precedente la colpa dei padri ricadeva sui figli (15) - e contemporaneamente proponeva una logica interpretativa impostata sulle categorie di ‘puro’ e ‘impuro’, cioè una logica che faceva riferimento alla ‘contaminazione’ più che all’etica.

La responsabilità individuale (con il conseguente rifiuto della trasmissibilità della colpa) e l’idea della contaminazione costituivano il modo di essere ebrei dell’aristocrazia Sacerdotale giunta al potere; un modo che non escludeva la persistenza di tratti culturali diversi, ma che divenne maggioritario nel mondo giudaico.

Teniamo presenti questi due elementi - rifiuto della trasmissibilità della colpa e impurità come conseguenza di una noxa contaminante - che sono il fulcro attorno al quale ruota questa ricerca: qui (nel pensiero dell’ambiente Sacerdotale del VI sec. a.C.) essi vengono proposti come tratti culturali fondamentali opposti all’ideologia Jahwista precedente. Approfondiamo la conoscenza dell’ortodossia sacerdotale giudaica, vedremo poi come ad essa si opporrà un pensiero diverso e come si svilupperanno in seguito le cose.

Il tratto fondamentale della cultura sacerdotale era la necessità di separare, cioè di distinguere. “Bisogna separare il sacro dal profano e l’impuro dal puro”(16) . Distinguere all’interno di due coppie di categorie di cui una definiva un ambito definibile della realtà: ciò che appartiene al mondo posto al di là della comprensione tramite i cinque sensi, il sacro, oppure al mondo materiale razionalmente interpretabile, il profano. L’altra coppia definiva invece uno status, di purità o di impurità, in cui l’essere umano si trovava in talune circostanze il cui senso profondo va approfondito sia perché di non facile interpretazione, sia perché esso è andato incontro - nella storia - ad un ribaltamento dalle conseguenze molto significative.

Dai testi che si riferiscono alla forma mentis sacerdotale, principalmente dalle ‘norme di purità’ contenute nel testo biblico del Levitico, apprendiamo che si pensavano esistenti animali considerati originariamente ‘impuri’ di cui era vietato cibarsi, ma che esistevano anche impurità derivanti da malattie o da emissioni corporali e, inoltre, impurità connesse con il ciclo della vita, come la sfera sessuale, e della morte. Un guazzabuglio di elementi diversi che hanno impegnato a lungo gli studiosi nel tentativo di capire qual’era lo schema seguito dai Sacerdoti dell’antico Israele nel loro ragionamento. 

L’antropologa inglese Mary Douglas (17) ha proposto di leggere nel ‘puro/impuro’ un sistema ‘ordinatorio’ per cui ogni cosa (animale, elemento o fatto della vita) doveva poter essere integrato con rigore all’interno di uno schema coerente per essere considerato ‘puro’; tutto quello che sfuggiva a questa catalogazione finiva con l’essere ritenuto ‘impuro’. Se i pesci vivono nell’acqua ed hanno le squame, chi vive nell’acqua ma è senza squame (come le anguille o i molluschi) sfugge alla categoria dei ‘pesci’, quindi è ‘impuro’ in quanto non assimilabile a quella categoria, pur condividendone alcune caratteristiche come il vivere nell’acqua. 

Anche lo ‘sporco’, secondo la studiosa, è interpretabile come alterazione di un ‘ordine’ più che un problema di igiene. Ordine/disordine potrebbe perciò essere all’origine di un’esigenza, al limite dell’ossessività, di distinguere. 

L’antica tradizione culturale mosaica si fondava infatti su una concezione dell’armonia cosmica derivante dall’opera di distinzione e di separazione che Dio aveva operato intervenendo sul ‘caos originario’. Per l’antico ebraismo l’intera creazione consisteva in questo: separare e distinguere, ancor più che creare (18). 
Distinguere la luce dalla tenebra, la terra dall’acqua, il cielo dalla terra, le acque superiori da quelle inferiori, ciò che sta sopra da ciò che sta sotto, il maschile dal femminile. Da qui il rifiuto assoluto riguardante, ad esempio, l’omosessualità: non si poteva confondere il maschile con il femminile. O l’umano con l’animale, da cui l’orrore per la zoofilia. In questa logica perfino sementi diverse sullo stesso campo erano proibite. Da questa precisa determinazione sembra derivare l’idea di distinguere il sacro dal profano e l’impuro dal puro.

Ogni trasgressione dell’ordine cosmico, di cui i Sacerdoti si sentivano i responsabili ed attenti guardiani, poteva far crollare non solo il Tempio o Israele, ma tutto il cosmo, tutta l’opera della creazione.
 
Ordine contro disordine: quella della Douglas è dunque una prospettiva interpretativa interessante, benché non condivisa da tutti, che ci permette di intuire, sullo sfondo, l’antico problema di distinguere il comprensibile dall’inspiegabile e forse, a monte, il problema di identificare l’umano dall’animale, la primitiva angoscia di definire se stessi.
 
Lasciamo agli storici il compito di approfondire la questione ed accontentiamoci per il momento di usare il termine ‘tabù’, tema peraltro molto complesso dai risvolti spesso enigmatici, presente in ogni epoca e in ogni cultura, per indicare un sistema di regolamentazione mediante proibizioni che tende a disciplinare principalmente due ambiti della vita umana: alimentazione e sessualità. 

La cultura ebraico-sacerdotale affrontava ciò che contaminava suddividendo le impurità in lecite ed illecite: era (ed è tuttora) illecito, quindi proibito, mangiare carne di alcuni animali non adatti (19), per cui cibarsene procurava una impurità da contatto che diventava ‘peccaminosità’ per via della trasgressione al divieto, mentre il parto (20) - atto di per sé non solo legittimo, ma ovviamente molto positivo - originava anch’esso un’impurità che era però considerata ‘lecita’. L’impurità era considerata come una sorta di fluido esistente in natura che poteva essere trasmesso per contatto; da qui l’isolamento della donna mestruata o della puerpera. 

Il termine ‘lecito’ - va ben compreso - significa che l’impuro nell’accezione giudaica  (21) - e islamica - è assolutamente privo di connotati negativi, di disvalore etico. Quindi l’impurità non coincide meccanicamente con la peccaminosità e, viceversa, la ‘purità’ non è sovrapponibile affatto al concetto di ‘bontà’ o di ‘spiritualità’, ma indica semplicemente una mancanza di impurità. 

Tuttora nella cultura ebraica, nonostante secoli di contatto-assimilazione-persecuzione-assimilazione (cioè di drammatico interscambio con la cultura europea dominante), moralità e purità sono rimasti concetti ben distinti e diversi da quelli cristiani; addirittura “si possono compiere azioni assolutamente lecite e in alcuni casi addirittura obbligatorie, come occuparsi dei morti, e arrivare al massimo livello dell’impurità” (22).
 
Il fatto di concepire un’impurità ‘lecita’ suona come una contraddizione in termini a chi si sia formato in un ambito culturale cristiano perché in questa tradizione i termini impurità e peccaminosità invece coincidono (23); è molto comune che una persona di mentalità tradizionale cristiana, anche se non religiosa, a parità di termini ritenga universalmente applicabile la propria logica ed interpreti malamente il pensiero ebraico-islamico, sovrapponendo la propria cultura a quella altrui. 

In realtà sul concetto di impurità le tradizioni divergono nettamente.

Ancora più sorprendentemente, se approfondiamo la ricerca, scopriamo che “nei riti ebraici ciò che veniva a contatto con il sacrificio diventava ‘impuro’, ossia contraeva parte della sacralità del sacrificio e per riportare l’oggetto all’uso normale era necessario ‘desacralizzare l’oggetto’, ossia purificarlo dal sacro”(24). In altri termini, con la purificazione “non si tratta di togliere lo sporco, ma di ‘neutralizzare’ il sacro”(25). 

Tutto ciò che aveva a che fare con il ciclo misterioso della vita e della morte (massimamente il sangue ed il cadavere) produceva impurità perché era esso stesso appartenente all’ambito del sacro, non essendo interpretabile con la logica razionale.
 
Nel pensiero ebraico arcaico (26) era il sacro che ‘contaminava’ e rendeva ‘impuri’; questo, se non spiega l’esistenza di animali ritenuti non commestibili per un’impurità congenita, ci chiarisce il motivo per cui si contraeva impurità anche da fatti della vita assolutamente legittimi o manifestamente positivi. 

Teniamo a mente questa particolare definizione dell’impurità come ‘derivante da un contatto con il sacro’ perché sarà necessario riprendere questo concetto più avanti.

Intanto notiamo però che sia il sacro che l’impuro erano ritenuti pericolosi per l’essere umano perché “l’uno e l’altro rivelano all’uomo l’esistenza di un mondo ignoto, incontrollato ed incontrollabile in quanto non percepibile con i cinque sensi a disposizione della ragione umana: è quel mondo di percezioni e sensazioni, dove si annidano il segreto del cosmo e la fonte della vita”(27). 

Ma se il sacro poteva addirittura uccidere, l’impurità, indotta dal sacro, era considerata pericolosa perché si riteneva che “indebolisse”, che rendesse fisicamente fiacchi (28) per cui, ad esempio, era sconsigliabile mettersi in viaggio in condizioni di impurità o, peggio ancora, affrontare uno scontro militare. Ecco il motivo dell’isolamento della donna in stato di impurità. Particolarmente sconsigliato accostarsi al Sancta Sanctorum - dove Dio stesso era pensato presente - in stato di impurità, cioè di ‘debolezza’: per questo i sacerdoti si purificavano prima del rito (29).

Potremmo ipotizzare che l’idea di questa ‘fiacchezza’ fisica sia rintracciabile, ancora una volta, nella saga di Gilgameš quando Enkidu, l’uomo selvaggio che va (in tutti i sensi, si suppone) con gli animali, viene circuìto dalla prostituta sacra che lo seduce e lo trattiene in amplesso per giorni e notti consecutive. Alla fine Enkidu è ormai civilizzato ed è particolarmente suggestiva l’idea che l’unione sessuale con la donna determini la “civilizzazione” dell’uomo, donandogli intelligenza e conoscenza e sottraendolo al mondo animale: 

Šamḫat denudò il seno, aprì le sue gambe ed egli la penetrò. Ella non lo respinse, lo abbracciò fortemente, aprì le sue vesti ed egli giacque su di lei. Ella donò a lui, l’uomo primitivo, l’arte della donna, ed egli saziò con lei sulla steppa le sue brame amorose. Per sei giorni e sette notti Enkidu giacque con Šamḫat e la possedette. Dopo essersi saziato del suo fascino, volse lo sguardo al suo bestiame: le gazzelle guardano Enkidu e fuggono, gli animali della steppa si tengono lontani da lui (…) le sue gambe, che (prima) tenevano il passo delle bestie, erano diventate rigide; Enkidu non aveva più forze e non poteva più correre come prima; egli però aveva ottenuto l’intelligenza; il suo sapere era diventato vasto”(30).

Šamḫat è una prostituta sacra e sacro è l’atto sessuale; l’idea che il selvaggio, dopo essere stato ‘umanizzato’ dalla donna, non abbia più le forze fisiche per correre di nuovo con gli animali (o “essere” ancora come loro), forse ci suggerisce come questa idea di ‘fiacchezza’ fisica, connessa al pensiero dell’incontro con il sacro, risuonasse ancora nel pensiero ebraico posteriore sull’impurità rituale.

I termini di quanto andiamo cercando sembrano essere già tutti presenti: l’uomo si può distinguere (e separare) dall’animale attraverso il rapporto sessuale con la donna che lo mette in contatto con la sfera del sacro. La donna è il tramite e nello stesso tempo il soggetto attivo, colei che ‘sa’, che agisce, che ‘civilizza’ l’uomo. Con questo atto l’uomo però si indebolisce, perde le forze fisiche che lo facevano ‘simile’ alla natura vivente non umana, ma anche forze necessarie nella vita ‘profana’, nella lotta per la sopravvivenza terribilmente dura dell’epoca. 

Era perciò ritenuto uno status pericoloso ed era indispensabile ‘purificarsi’, cioè decontaminarsi dalla sacralità, per tornare alla condizione ‘profana’, considerata adatta alla vita ordinaria.
 
Nella contaminazione non esisteva però alcun tipo di giudizio morale; l’impurità era fatto della vita, accadimento naturale, che non comportava alcuna svalutazione etica dell’atto in sé, ma che andava gestito in una dinamica contaminazione/decontaminazione (purificazione) in cui le due dimensioni coinvolte, sacro e profano, definivano di volta in volta uno status occasionale o normale della vita umana. La purificazione riportava l’essere umano allo stato profano, consono alla vita di tutti i giorni, perché interpretabile tramite i cinque sensi, cioè conoscibile.

Anche la sessualità, determinante impurità, non era considerata un atto peccaminoso in sé, legittimato solo da finalità riproduttive come diventerà per i cristiani, perché “non c’è nell’ebraismo l’ossessionante concetto che i rapporti sessuali siano, in qualche modo peccaminosi. Il corpo umano non è stato né divinizzato né rinnegato (…) Il fatto che la pratica del sesso sia accompagnata da intenso piacere è, per il credente, un’ulteriore prova della bontà di Dio” (31).  

Alle donne ebree in particolare era riconosciuta l’ultima parola in fatto di rapporti sessuali: benché giuridicamente meno ‘forti’ dell’uomo - in una società decisamente patriarcale non poteva essere che così - le donne potevano ricorrere al tribunale rabbinico per pretendere il divorzio in caso di insoddisfacente vita sessuale, senza per questo attirarsi gli anatemi della loro comunità. 

Io sono una donna assetata” scrive una certa Milah ad un giudice “il mio uomo è inutile, lascia che mi separi”(32). 

Volendo si può confrontare questa cultura con la tradizione cristiana in merito a divorzio e riconoscimento del diritto femminile alla soddisfazione sessuale, ma è già significativo che nell’ebraismo il momento più propizio per i rapporti sessuali è considerato quello in cui inizia il sabato, lo shabbat, il giorno ‘sacro’, mentre il cristianesimo al contrario ritiene che la domenica, il giorno del Dio cristiano, sia il tempo dell’astensione che non deve assolutamente essere profanato da rapporti sessuali.
 
Se nella cristianità “è la negazione della dimensione sessuale a essere vista come positiva (…) l’ebraismo combatte contro l’idea che astenersi dai rapporti sessuali porti alla purità (…) Storicamente la reazione ebraica alla concezione cristiana della sessualità e del peccato originale che ne è alla base, non consistette in una sua negazione diretta, ma sfociò piuttosto nella creazione di un apparato normativo diverso”(33). 

Fino dai primi tempi del Talmud quindi la vita sessuale era regolata da questo ‘apparato normativo’: un precetto (onah) stabiliva il numero minimo dei rapporti che l’uomo ‘doveva’ alla moglie a seconda del lavoro che faceva. Un disoccupato, evidentemente non troppo oberato da faccende esterne, doveva garantire almeno un rapporto al giorno (ma alcuni rabbini sostenevano che il ‘minimo’ era tanto quanto la donna desiderava). Era la donna a stabilire tempi e modi dell’amplesso anche se “le donne sono (…) considerate in possesso di una grande carica sessuale, ma incapaci di chiedere un appagamento in tal senso”(34) ; sta quindi agli uomini assicurare loro una vita sessuale soddisfacente, ma le donne capaci di andare oltre questa naturale incapacità femminile, prendendo l’iniziativa sessuale, sono “degne di lode”(35).
Ed era sempre la donna, non l’uomo, a stabilire se e quando procreare pur tenendo presente che nella cultura ebraica ‘moltiplicarsi’ è sentito come un imperativo. La codificazione precettistica può indubbiamente sembrare ridicola, ma possiamo intuirvi una legittimazione sociale della sessualità femminile; il precetto ha “valore indipendentemente dalla procreazione: la donna ha diritto all’appagamento sessuale anche se è incinta o in menopausa”(36) . 
La conseguenza è che “la donna ebrea non sembra provare la dissociazione della donna cristiana sposa-madre integerrima o vile prostituta”(37).


Un altro precetto definiva invece lo stato di indisponibilità della donna ai rapporti per via dell’impurità mestruale o post partum (niddah): secrezioni vaginali, emissione di sperma, sangue puerperale o mestruazioni erano considerati tramite di contaminazione, così come lo erano anche le deiezioni derivanti dal circuito alimentare o i sintomi di malattie della pelle (38). 
Nel pensiero convivevano dunque elementi contaminanti che, alla sensibilità moderna, possono apparire puliti o sporchi, accettabili o ributtanti, che ci sembrano in ogni caso accostati in modo incomprensibile. 

Anche nel pensiero islamico, molto prossimo a quello ebraico, troviamo elementi che ci possono apparire ambigui: sono “qualcosa che fa mutare dall’esterno”, quindi una noxa contaminante esterna, e le conseguenti impurità sono suddivise in ‘maggiori’ e ‘minori’: “Le impurità minori (aḥdāth), o piuttosto i fattori minori che annullano lo stato di purità, sono (…): le materie fecali e l’urina (…) il contatto con una donna e quello con il basso ventre (…) Le impurità maggiori sono dovute a quattro fattori (janāba): il coito, l’emissione di sperma, il flusso mestruale e l’emissione di fluidi puerperali”(39). 

Anche qui elementi eterogenei complessivamente definiti nağāsāt, contaminanti, che determinano livelli diversi di impurità fra cui sembra difficile distinguere, ma da cui è comunque obbligatorio purificarsi. 
Cos’è allora la contaminazione, da cosa deriva ? Da moralismo sessuofobico, misoginia, questioni igieniche, etica, galateo ?

Forse un elemento ulteriore, considerato contaminante dalla cultura giudaico-islamica, può essere illuminante per capire meglio le differenze culturali di fondo con il cristianesimo circa l’impurità: il sonno. 


Sia nell’ebraismo che nell’Islam l’essere umano appena sveglio si trova in stato di impurità rituale. Gli ebrei devono perciò recitare subito una specifica preghiera, il Mode’Ani’ (40), in cui si ringrazia Dio per aver “restituito l’anima” (che perciò sembrerebbe coincidere con lo stato di coscienza); anche i musulmani osservanti al risveglio devono procedere con abluzioni di purificazione accompagnate da espressioni di devozione. 


Se il sonno (o comunque la perdita di coscienza) (41) rendono impuri potremmo pensare che è complessivamente la sfera del non comprensibile, oggi lo definiremmo “non cosciente”, ad essere considerata elemento di contaminazione: l’antica idea dell’ebraismo sacerdotale che l’impurità sia apportata dal ‘sacro’ - ciò che non è spiegabile razionalmente - può dunque aver agito a lungo in modo latente, nonostante le modificazioni interpretative successive (tutte da capire sia nelle origini che nel contenuto), percorrendo quella corrente culturale ‘semitica’ che connette l’ebraismo sacerdotale a quello rabbinico (42), per arrivare fino all’Islam che con l’ebraismo condivide l’insieme delle norme di purità, anche se con qualche piccola differenza.


Arriviamo allora ad ipotizzare che l’impurità, priva di valutazioni etiche negative, derivi in realtà dalla contiguità con l’irrazionale e che i riti di purificazione siano rituali di ‘separazione’, non di ‘pulizia’, da ciò che i cristiani considerano con disprezzo “immondo”, ma che immondo evidentemente non è. Al più, che l’impurità sia elemento di semplice “disordine” transitorio, come affermato dalla Douglas, derivante da una commistione tra ambiti diversi della vita; commistione da risolvere quindi, ma mai considerata moralmente riprovevole.

Si potrebbero spiegare così alcune differenze sostanziali tra cultura ebraico-islamica e cultura cristiana in merito alla sessualità ed al mondo onirico: mentre la cristianità espresse, appena avvicinatasi al potere, un divieto all’interpretazione dei sogni già nel concilio di Ancyra del 314 d.C. (43), poi ribadito da papa Gregorio II nell’VIII secolo d.C., nel Talmud, più o meno negli stessi tempi, si dava “molta importanza ai sogni e allo stato mentale del sognatore prima di addormentarsi. Dice il rabbino Chisda ‘Ogni sogno ha un significato’ e ancora ‘Un sogno non interpretato è come una lettera non letta”(44), stabilendo un principio di legittimità all’interpretazione dei sogni che vedrà nella Qabbalah medievale - la via mistica ebraica ampiamente influenzata dal sufismo islamico (45) - un ambito particolarmente interessato, tanto quanto lo era il misticismo dell’Islam, al mondo irrazionale, onirico, magico.
 

Ma se già nei primi secoli della nostra éra la cultura ebraica non demonizzava i sogni e la loro interpretazione, rifiutava l’idea di una natura umana originariamente peccaminosa né riteneva peccaminosa la sessualità (e, conseguentemente, non riteneva la donna una ‘ianua diaboli’, una porta del Diavolo, come la definiva Tertulliano) e se, infine, rifiutava l’idea che l’impurità avesse un contenuto etico negativo, per quale motivo la tradizione cristiana, che pure è germogliata all’interno del mondo giudaico, era giunta a conclusioni opposte ? Dove e quando si è determinato un rovesciamento di senso rispetto a temi così centrali nella vita ? 

Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro tornando all’epoca della casta Sacerdotale, quella aristocrazia giudaica che aveva preso il potere politico dopo il ritorno dall’esilio babilonese nel VI sec. a.C. Della sua cultura, diversa da quella Jahwista, abbiamo già parlato. Ma già nel V sec. a.C. (46)  contro di essa si andò formando un movimento che era nello stesso tempo culturale, politico e religioso. 

Un movimento di opposizione - chiamato ‘enochico’ perché il suo patriarca di riferimento era Enoch non Mosè - che rifiutava la legge mosaica e la tradizione biblica optando per una propria mitologia: in sintesi una corrente ebraica che con l’ortodossia sacerdotale condivideva lingua e monoteismo, ma poco altro. “L’enochismo è quella forma di religione giudaica che a partire dall’epoca postesilica si sviluppò in maniera complessa fino al I secolo d.C., scorrendo parallelamente al giudaismo che oggi ci appare come ufficiale”(47), cioè al giudaismo dei Sacerdoti. 


Secondo la sensibilità moderna dell’occidente cristiano il termine “sacro” si lega spontaneamente al “puro” ed allo spirituale, così come il “profano” al termine “impuro” ed al materiale. E’ la conseguenza di un’ideologia - opposta a quella della tradizione sacerdotale giudaica che, ricordiamolo ancora, connetteva l’impuro al sacro - che si andò formando nel corso di secoli e che ebbe conseguenze di enorme portata nella vita di larga parte del genere umano. E’ questo il punto che va chiarito, il ‘rovesciamento’ di senso che va interpretato. 


Questo punto di svolta segna una rottura che avrà conseguenze storiche inimmaginabili. Ancora oggi siamo immersi, che lo si voglia o no, nell’atmosfera ideologica che si venne a determinare in questa fase storica.
 

Il primo testo di questo movimento - che oggi consideriamo genericamente di area “apocalittica” (48) - il Libro dei Vigilanti, aprì prospettive del tutto nuove per l’interpretazione del peccato e dell’impurità. La cultura enochica “può essere identificata da una particolare concezione del male, inteso come realtà autonoma, precedente al libero arbitrio umano, risultato di una ‘contaminazione che ha corrotto la natura’ (umana)”(49).
 

Ci troviamo di fronte ad un vero e proprio salto epistemologico: secondo il nuovo mito un gruppo di angeli si innamorò delle “figlie degli uomini” e scese dal cielo per unirsi a loro. L’impurità, viene detto, si era formata in seguito a questa trasgressione all’ordine cosmico, un peccato angelico delle origini per via dell’unione sessuale degli esseri spirituali con le donne umane; l’impurità derivante dall’atto, contaminando tutto il mondo, ne aveva alterato la bontà originaria. “Perché avete lasciato il cielo eccelso e santo in eterno e vi siete coricati con le figlie degli uomini (…) Voi, esseri spirituali, santi e viventi la vita eterna, avete commesso impurità sulle donne (…) ed avete fatto come fanno (gli uomini), che sono sangue e carne, che sono mortali e distruttibili. E perciò Io detti loro le donne affinché seminino su di esse e da esse, così come si fa sulla terra, nascano figli”(50). 

Sono le parole con cui Dio rimprovera gli angeli che si sono comportati come gli uomini mortali, ma, nello stesso tempo, nel testo si sottolinea la capacità seduttiva e quindi la pericolosità delle donne, accomunate perciò agli angeli caduti nella punizione divina in un rieccheggiare di temi che non erano, alla fine, così lontani dalla mentalità (e dalla mitologia) Jahwista.
 

In questo testo l’impurità, originata dall’anomalo incontro sessuale, è pensata derivante da una trasgressione e perciò si configura come peccaminosità; i termini alla fine coincidono. Si apre così una nuova prospettiva: per i Sacerdoti dell’ortodossia giudaica l’impurità è fatto eticamente neutro, per gli enochici essa si carica di una valenza negativa. 

E’ l’inizio del rovesciamento di senso di cui abbiamo parlato.


Si perde, insieme alla visione neutra dell’impurità, anche l’idea che sia il sacro ad essere elemento contaminante. Da qui abbiamo un progressivo scivolamento del senso del sacro dal tremendum con cui rapportarsi prudentemente, al fascinans verso il quale tendere, in pieno afflato mistico. Nello stesso testo possiamo infatti notare in modo evidente come l’ambito spirituale sia esaltato rispetto a quello materiale: “l’uomo è formato di spirito e di corpo, immortale il primo e caduco il secondo. Il secondo però è contaminato dalla contaminazione provocata dagli angeli (…) Compito dell’uomo è mantenere puro, non contaminato lo spirito, perché possa vivere della sua vera vita”(51).
 

Possiamo dedurre che in questa mentalità il comportamento pio e religiosamente corretto era dunque - molto sinteticamente - stare alla larga dalle donne (cioè non fare come gli “angeli caduti”). La colpa addebitata “agli angeli”, era in realtà degli uomini che andavano con le donne e delle donne in quanto elemento seduttivo. Si fonda qui, con la progressiva negazione della corporeità, una cultura sessuofobica e misogina che troverà poi una profonda consonanza con quella ellenistica; dalla fusione delle due, è cosa nota, avrà origine la mentalità cristiana, fondata sull’idea che la dimensione più adatta al rapporto con il divino fosse quella dell’ascesi e della verginità (52).
 

Contemporaneamente, attraverso l’enochismo entra nel mondo giudaico la credenza nell’immortalità dell’anima, tema mutuato probabilmente dalla spiritualità mazdaica persiana (53): “La corrente enochica portò nel giudaismo un modo completamente nuovo di intendere e vivere il rapporto uomo-Dio, cioè la religione. La base del cambiamento è la nuova antropologia: l’uomo non finisce la sua vita con la morte, ma la può continuare in una dimensione diversa e migliore; il suo colloquio con Dio non riguarda più soltanto le cose di questo mondo (…) L’interesse per le cose di questo mondo è bilanciato e forse superato da quello per l’aldilà, dove tutto ciò che è paura, sofferenza e morte non esisterà più”(54). In conclusione si può affermare che “l’enochismo fonda la religiosità moderna, visibile soprattutto nella derivazione cristiana”(55).


In altre correnti apocalittiche - minoritarie ma non ininfluenti nel mondo giudaico - il tema del peccato angelico sarà poi dimenticato, ma l’idea che l’incontro sessuale fra uomini e donne fosse di per sé un atto macchiato da impurità-peccaminosità rimase. Nell’essenismo (56) ciò fu particolarmente rilevante, ma si fece anche strada il pensiero che, essendo la sessualità evidentemente connaturata all’essere umano, l’essenza stessa dell’umanità fosse originariamente peccaminosa. 

Nei manoscritti trovati nelle grotte di Qumran, dove viveva una comunità di ‘puri’, scismatici dell’essenismo, si trova un testo chiarissimo su questo: “Quale creatura d’argilla può fare miracoli? Fin dall’utero è nel peccato e fino alla vecchiaia nella colpevole iniquità”(57). Non è il tema del ‘peccato originale’ della Genesi, ma affermazione che, al termine di un’elaborazione teorica complessa ed articolata durata secoli, ripropone alla fine lo stesso pensiero del brano biblico sull’essere umano: sessualità e natura umana sono originariamente peccaminose. L’uomo nasce macchiato dalla colpa. La logica dell’apocalittica giudaica si connette ideologicamente con i testi antichi dell’ebraismo Jahwista e prelude chiaramente alla successiva ideologia cristiana che farà del ‘peccato originale’ un elemento fondativo tuttora imprescindibile (58).

In conclusione possiamo ipotizzare che attorno al senso dato al concetto di ‘impuro’ ruoti la sostanziale differenziazione tra due culture, parallele e diverse: da una parte quella che possiamo correttamente definire “giudaico-cristiana” in cui è evidente la continuità ideologica fra le correnti minoritarie dell’apocalittica giudaica ed il cristianesimo che da setta irrilevante dell’ebraismo si trasformò in una nuova religione universalistica autonoma; dall’altra quella dell’ebraismo “ortodosso” sacerdotale-farisaico-rabbinico, cioè della tradizione che noi oggi chiamiamo ‘ebraismo’ tout-court, che ha invece ben più evidente prossimità con il pensiero islamico (59). Con esso infatti condivide ampi tratti culturali, a partire dal rifiuto dell’idea che Dio si possa incarnare in un uomo fino al rifiuto di considerare originariamente peccaminosa la realtà umana. Come è stato detto anche recentemente: “può sembrare paradossale, visti gli scontri fra ebrei e musulmani: in realtà, però, l’islam e l’ebraismo sono molto più simili fra loro che non rispetto al cristianesimo”(60).
 

Esiste certamente una linea di continuità storica tra le precise correnti, indiscutibilmente ebraiche, dell’apocalittica giudaica ed il cristianesimo, ma nel termine “giudaico-cristiano” esiste un equivoco che “nasce dalla dimenticanza della frattura determinatasi nella storia ebraica con la tragedia del Golgota”(61), quindi se si sostiene una continuità, questa può essere solo “con l’ebraismo antecedente a quel crollo, dalla cui linea profetica si è staccato, per ‘accecamento’ (Romani 11, 25), l’attuale ebraismo. Proprio in quella linea esso è stato sostituito, come popolo eletto, dal cristianesimo”(62).
 

Dubitiamo che sia legittimo sostenere una continuità con ‘tutto’ l’ebraismo antecedente quel crollo, ma solo, come abbiamo visto, con alcune correnti minoritarie; concordiamo invece sul fatto che il termine “giudaico-cristiano”, rapportato all’attualità, non comprenda l’ebraismo rabbinico - fuori strada per ‘accecamento’ secondo Paolo di Tarso - ma significhi semplicemente “cristiano”(63).
 

Un corretto utilizzo dei termini è necessario per non confondere tradizioni ideologiche ben diverse: i due concetti da cui siamo partiti - rifiuto della trasmissibilità della colpa e impurità come conseguenza di una noxa contaminante, caratterizzanti la tradizione ebraica dal Sacerdotale al Rabbinismo - sono stati completamente ribaltati con l’emergere della tradizione giudaico-cristiana; la ‘colpa’ è di nuovo, come nella più antica tradizione jahwista, trasmissibile di generazione in generazione essendo connaturata alla realtà umana come se facesse parte del suo patrimonio genetico (64) e contemporaneamente la noxa contaminante - quella dimensione particolare in cui l’essere umano si trova in determinate circostanze, da vivere con prudenza e da cui separarsi dopo averla vissuta - è sparita, sostituita da una congenita peccaminosità che investe i tratti fondamentali dell’essere umano: la sessualità, il rapporto con il diverso da sé, il sogno e il sonno in cui l’uomo è immerso per un terzo della sua vita. Tutti elementi fondamentali della vita che sono finiti sotto la scure di una condanna aprioristica. Condanna che ha preteso l’imporsi ed il prevalere di una ‘mente’ in grado di controllare e dirigere: la nascita del logos.

La trasformazione del concetto di ‘impuro’ nel corso dei secoli sembra essere dunque uno degli elementi che più significativamente hanno definito una separazione netta tra la tradizione giudaico-cristiana e quella ebraico-islamica: nel primo caso si tratta di ‘immondizia’ che alberga naturalmente nell’essere umano, connaturata alla realtà umana, nel secondo ci viene comunicato un senso di libero movimento, di entrare ed uscire, attraverso separazioni sancite dai riti di purificazione, in e da una dimensione ritenuta prossima alla sacralità. 


Dal sonno alla veglia, dal mondo onirico a quello della coscienza, dall’incontro sessuale all’attività ‘profana’. Ciò che per i cristiani è il Male, l’innavicinabile demoniaco - la donna (65), l’inconscio - per ebrei e musulmani sembra essere un ambito cui è invece lecito avvicinarsi alla ricerca di un latente: quel mistero la cui natura sfuggente tanti mistici (66), sufi e cabbalisti, hanno tentato di cogliere, ma che in realtà avrebbe avuto qualche possibilità di essere svelato solo a patto di abbandonare - in primis - l’idea religiosa che l’essenza umana sia immagine divina. 

A patto cioè di essere atei.



agosto 2011

NOTE 

1) G. Semerano, Le origini della cultura europea, Leo Olschki, Firenze 1994, p. 151. Cfr. anche J. Bottéro, S. Kramer, Uomini e dèi della Mesopotamia, Einaudi, Torino 1992.

2) G. Pettinato (a cura di), La Saga di Gilgameš, epopea paleobabilonese, Oscar Mondadori, Milano 2004, pp. 268-269.
 
3) Secondo la cosiddetta “ipotesi documentale”, metodo di interpretazione storico-critica del testo biblico elaborata da J. Wellhausen (1844-1918), tuttora ampiamente condiviso dagli studiosi, le fonti da cui sono originate le varie parti della Bibbia sono quattro: Jahwista (o fonte ‘J’, perché chiama Dio con il nome Jahwè, datata al IX sec. a.C.), Deuteronimista, Elohista e Sacerdotale (o fonte ‘P’ da Priestercodex termine tedesco per ‘codice sacerdotale’) risalente al VI sec. a.C.. In particolare le fonti J e P costituiscono le tradizioni diverse che sono oggetto di questa ricerca. Le datazioni proposte sono di Mons. G. Ravasi, ma esse costituiscono un problema sempre aperto a nuove interpretazioni. Anche mettendo in discussione le date, resta il fatto che si tratta comunque di stratificazioni ideologiche diverse.
 
4) Paolo di Tarso, 1Corinzi 11,8.
 
5) C. Moro, La Bibbia ebraica come fonte di storia dell’ideologia in Atti della seconda giornata di studio sulla teologia politica, Roma, 30.06.2003, in www.orientalisti.net/orientalia.htm. Il riferimento ai testi rimasti fuori dal canone è ai libri di Siracide e Sapienza (di Salomone) non accettati nel canone ebraico, ma ritenuti canonici dal cristianesimo. Vedi oltre nota 56.
 
6) Il secondo capitolo parla della creazione dell’uomo e della donna, nel terzo si parla del peccato originale e della cacciata dall’Eden e per il cristianesimo “…il contesto più prossimo alle altre parole di Cristo (…) è il cosiddetto secondo racconto della creazione dell’uomo (Gen 2,5-25), ma indirettamente è tutto il terzo capitolo della Genesi”, Giovanni Paolo II, Udienza Generale del 12.09.1979, http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/audiences/1979/index_it.htm. E’ da ricordare che il primo e il quinto capitolo della Genesi di fonte Sacerdotale sono cronologicamente posteriori del secondo, terzo e quarto di fonte Jahwista.
 
7) La Bibbia, Genesi 1,27-1,31.
 
8) In Genesi 4; la fonte Jahwista “si appropria senza alcuna difficoltà di materiali originariamente non israelitici, quali la storia di Caino ed Abele”, J. Alberto Soggin, Introduzione all’Antico Testamento, Paideia, Brescia 19874, p. 147. Il riferimento, anche in questo caso, è al mito sumero del contrasto fra i fratelli Emesh ed Enten, che si conclude però con la riconciliazione fra i due.
 
9) La Bibbia, Genesi, 4,25.
 
10) La Bibbia, Genesi 5,1-3.
 
11) Gran parte dei brani riconducibili alla fonte P sono facilmente individuabili per essere noiose elencazioni di nomi o di cause di impurità o ancora pedanti e puntigliosissime disposizioni liturgiche.
 
12) Da notare che al contrario il serpente è sempre stato “Agathodaimon” (spirito buono) nella cultura greco-romana.
 
13) Si tratta di Ezechiele, l’ultimo dei cosiddetti profeti maggiori.
 
14) “Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l’iniquità del padre, né il padre l’iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al malvagio la sua malvagità”, Ezechiele 18,20. E’ una frase che troviamo, quasi identica, anche nel Corano: “Ognuno pecca contro se stesso: nessuno porterà il fardello di un altro”, Sura 6, Al-An'âm, v. 164.
 
15) “Perché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”, La Bibbia, Esodo, 20, 5 e Deuteronomio 5, 9.
 
16) La Bibbia, Levitico 10,10. Fondamentale il testo di P. Sacchi, Sacro/profano, impuro/puro nella Bibbia e dintorni, Morcelliana, Brescia 2007. La traduzione cristiana, nella versione CEI, suona “distinguere ciò che è santo da ciò che è profano e ciò che è immondo da ciò che è mondo”, ma ‘sacro’ non coincide meccanicamente con ‘santo’ né, tantomeno, ‘impuro’ con ‘immondo’, che ha un contenuto di sporco, di rifiuto repellente del tutto assente nel termine ebraico tame’ (impuro). La traduzione altera profondamente il senso dell’impurità rituale ebraica.
 
17) M. Douglas, Purezza e pericolo, il Mulino, Bologna 2010 (Penguin Books, 1970), pp. 85-105.
 
18) Il termine ebraico barà che significa ‘creare’ è utilizzato dall’estensore biblico solo in riferimento agli esseri vivificati; la differenza fra di loro è poi stabilita dall’immagine divina, presente nell’uomo, ma non negli animali. Per il creato non vivificato vengono usate varie altre espressioni come ‘separò’, ‘chiamò’, ‘fece’, ‘pose’. Cfr. Giovanni Paolo II, Udienza Generale del 12.09.1979, cit. Da qui il dubbio che la ‘creazione dal nulla’, data per scontata nel cristianesimo, non lo sia affatto nel pensiero ebraico dove, “il discorso sistematico intorno alla creazione dal nulla è piuttosto tardo. Come dottrina, non è enunciata né nelle fonti bibliche né in quelle talmudiche”, G. Laras, La natura nel pensiero ebraico, CUEM, Milano 2006, p. 95.
 
19) Le regole di purità sono molto complesse. Qualsiasi sostanza inerente l’alimentazione umana deve essere approvata dal rabbinato per essere considerata kosher che significa ‘adatta’. La motivazione del divieto di cibarsi di certe carni può avere, o non avere, spiegazioni razionali di tipo igienico-sanitarie, ma il punto di vista religioso è molto più semplice: quelle carni sono proibite perché “Dio l’ha detto” e non c’è altro da aggiungere. Troviamo una prassi pressoché identica nell’islam.
 
20) La Bibbia, Levitico 12, 2-7.
 
21) I termini ‘giudaico’ ed ‘ebraico’ oggi sono intercambiabili e qui vengono usati in questo modo; per essere più esatti per giudaismo si intende storicamente quella particolare forma presa dall’ebraismo dopo l’esilio babilonese, caratterizzata da una variazione dal ‘culto del Tempio’ (che era stato distrutto) ad un culto basato sulla parola e sulla scrittura che portava con sé una serie di nuovi elementi cultuali e culturali: rigido monoteismo e accentuata trascendenza del divino, ideologia del ‘popolo eletto’ e opposizione ai matrimoni esogamici, fine della casa regnante ed affermazione della cultura sacerdotale, norme di purità, adozione dell’alfabeto aramaico ‘quadrato’ e così via.
 
22) Uomini e profeti, Radio Rai3, 06.11.2010, intervista di G. Caramore al rabbino capo della Comunità ebraica romana, R. Di Segni, http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/PublishingBlock-21e3c4a0-7f5a-440b-a32b-18135e27580f-podcast.html
 
23) I pensieri o atti ‘impuri’ o ‘immondi’ sono pensieri ed atti ‘peccaminosi’: i termini sono intercambiabili.
 
24) G. Deiana, Levitico, Ed. Paoline, Roma 2005, p. 6.
 
25) Ibidem.
 
26) Nel corso dei secoli questa particolare interpretazione è andata incontro a modifiche, ma, come abbiamo visto dall’intervista al rabbino Di Segni, l’impuro rituale ebraico è tuttora ben diverso dall’idea cristiana di impurità.
 
27) P. Sacchi, Sacro/profano-impuro/puro nella Bibbia e dintorni, Morcelliana, Brescia 2007, p. 225.
 
28) Fisicamente, non moralmente.
 
29) Ed anche dopo per non contaminare il popolo con l’impurità contratta dal contatto con il sacro.
 
30) G. Pettinato (a cura di), La Saga di Gilgameš, epopea classica babilonese, Tav.1, Oscar Mondadori, Milano 2004, p. 15.
 
31) L. Caro, Considerazioni generali sulla sessualità nel mondo ebraico, in ‘La Sessualità. Aspetti religiosi, culturali, sociologici e sanitari’, Convegno di studi, Ferrara, 02.04.1995, Ed. Cassa di Risparmio di Ferrara, Ferrara 1996, pp. 15-19. Senza negare che correnti e tendenze misogine e sessuofobiche esistono e sono esistite nel mondo ebraico. In generale però si può dire che la materia non è mai stata considerata negativamente nell’ebraismo, così come nello zoroastrismo, che sicuramente lo influenzò durante l’epoca persiana del vicino oriente antico, in cui “il male non è mai identificato con la materia, come nel caso dei manichei”, R. C. Zaehner, Il libro del consiglio di Zarathushtra, Ubaldini Ed., Roma 1976, p. 19. Il manicheismo è un’eresia tarda dello zoroastrismo; siamo nel III sec. d.C. ed il profeta Mani aveva un’originaria formazione religiosa cristiano-siriaca.
 
32) A. Scandaliato, L’ultimo canto di Ester. Donne ebree del Medioevo in Sicilia, Sellerio, Palermo 1999, p. 125.
 
33) G. Laras, L’amore nel pensiero ebraico, CUEM, Milano 2005, p. 10 e ss.
 
34) D. Biale, L’eros nella Bibbia. Dai tempi biblici ai giorni nostri, Giuntina, Firenze 2003, p. 87. I precetti talmudici onah e niddah sono tuttora considerati validi per la vita matrimoniale degli ebrei osservanti: “è una mitzvah (un dovere) per l’uomo di far godere la donna, mentre il piacere dell’uomo è considerato al massimo un’inevitabile conseguenza del rapporto sessuale. Il piacere sessuale, che un uomo può trarre dal rapporto stesso è considerato potenzialmente pericoloso e non è una motivazione sufficientemente valida per fare del sesso”, D. Fabbrini, Il matrimonio ebraico, tesi di laurea, Istituto di Diritto Canonico, Università di Milano 1998, http://www.morasha.it/tesi/fbbr/fbbr00.html
 
35) D.Biale, L’eros nella Bibbia, cit., p. 88.
 
36) D. Biale, L’eros nella Bibbia, cit., p. 87. Qualche secolo dopo la cultura islamica adottò la stessa mentalità: “la sessualità, pur essendo orientata verso un fine altro da sé (la procreazione), può mettere tra parentesi questo aspetto e rivelarsi dono, avventura, fantasia, esuberanza, libertà”, A. Bouhdiba, La sessualità nell’Islam, Bruno Mondadori, Milano 2005, p. 110.
 
37) A. Scandaliato, L’ultimo canto di Ester, cit., p. 19.
 
38) La Bibbia, Levitico, 13, 2 ss.
 
39) M. A. Amir-Moezzi (a cura di), Dizionario del Corano, Mondadori, Milano 2007, p. 685.
 
40) http://www.e-brei.net/old/modules.php?name=News&file=print&sid=382
 
41) M. A. Amir-Moezzi (a cura di), Dizionario del Corano, cit., p. 685.
 
42) La particolare forma del giudaismo, erede in larga misura della tradizione sacerdotale-farisaica, sviluppatasi dopo la distruzione romana del 70 d.C., che è “l’ebraismo” come noi lo intendiamo oggi.
 
43) G. De Simone, L. Fagioli, L’interpretazione dei sogni nell’Islam. Un’introduzione, “Il sogno della farfalla”, 1, 2007, p. 41.
 
44) A. M. Partini, Il sogno e il suo mistero. Tradizione, psicologia, divinazione, Ed. Mediterranee, Roma 19962, p. 21. Il Talmud è un testo sacro dell’ebraismo composto, raccogliendo la tradizione orale, tra il I e il V secolo d.C.
 
45) “Sufism has a special claim upon the attention of Jewish scholars because of its influence on the ethical and mystic writings of the Judæo-Arabian period”, Jewish Encyclopedia, http://www.jewishencyclopedia.com/view.jsp?artid=1152&letter=S&search=sufi
 
46) Datazione di P. Sacchi, L’apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, Brescia 1990, p. 156. Altri studiosi propendono per una datazione più bassa, al III sec. a.C. e la cosa non è trascurabile; una datazione alta rimanda al periodo persiano del Vicino Oriente, una bassa a quello greco. Le valutazioni delle influenze esterne sul mondo ebraico quindi cambiano.
 
47) P. Sacchi, Gesù nel suo tempo: i concetti di peccato, espiazione e sacrificio, ‘Archivio teologico torinese’, anno V, 1/1999, Ed. L.D.C., Torino, pp. 20-29.
 
48) Cioè portatrice di una ‘rivelazione’, di uno svelamento del mistero, di un manifestarsi del divino; come conseguenza di questa rivelazione si preconizza anche l’evento finale dei tempi a venire, il giudizio universale. Nell’uso comune attuale, il termine indica la “fine del mondo” in senso catastrofista, ma è un utilizzo distorto del senso originario.
 
49) G. Boccaccini, Oltre l’ipotesi essenica. Lo scisma tra Qumran e il giudaismo enochico, Morcelliana, Brescia 2003, p. 45.
 
50) P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, UTET, Torino 2006, Libro dei Vigilanti, 15-3,4, p. 487. Per questo, per la procreazione, le donne vengono ‘date’ agli uomini mortali. Se gli uomini sono mortali hanno la necessità di accoppiarsi per la continuità della specie, se sono immortali ovviamente possono farne a meno. Si accenna cioè alla finalità riproduttiva come all’unico senso che l’incontro sessuale fra uomini e donne possa avere ed anche questo sembra essere stata una novità nel mondo giudaico.
 
51) P. Sacchi (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, Vol. I, UTET, Torino 2006, p. 446.
 
52) Al contrario “I Giudei non riconoscono la bellezza della verginità: non c'è da meravigliarsene, giacché non hanno rispettato neppure Cristo, nato da una vergine”, San Giovanni Crisostomo, Omelie contro i giudei.
 
53) O greca. Cfr. nota 46. Personalmente propendo per un’influenza persiana per il ruolo importante svolto nella letteratura apocalittica da angeli con ruoli e nomi propri, elementi tipici dell’angelologia persiana, non della tradizione greca.
 
54) P. Sacchi, Il problema “apocalittica”, pubblicato in ‘Credereoggi’ XIV, LXXX, 1994, pp. 32-44.
 
55) Ibidem.
 
56) Altra corrente apocalittica derivante dall’enochismo, ma con caratteristiche ideologiche sue proprie.
 
57) Inni di Qumran, 1QH, XII (=IV), 29-30, Preghiera nell’angoscia e fiducia in Dio, in F. García Martínez, Testi di Qumran, (edizione italiana a cura di C. Martone), Paideia, Brescia 1996, p. 535.
 
58) Il concetto di “peccato originale” come noi lo conosciamo deriva dall’interpretazione filosofica della Genesi operata dal giudaismo ellenistico, in particolare da Filone di Alessandria, e, poco dopo, in modo funzionale, da Paolo di Tarso: “profetico è anche l’atteggiamento di Paolo, che risale ad Adamo per annunciare che Gesù il messia, è l’Adamo rovesciato: quello ha portato il peccato nel mondo, questo lo ha tolto”, S. Levi Della Torre, Eredità di Paolo di Tarso, Atti del seminario invernale, Paolo di Tarso: apostolo o apostata ?, Biblia, Firenze 2008, p. 70. In sintesi “è san Paolo che ha tratto il tema adamitico dal suo letargo”, P. Ricoeur, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 502-504. Sia l’ebraismo rabbinico che l’islam sostengono invece l’idea che l’essere umano nasca senza colpe. Dal momento che l’ebraismo rabbinico si è sviluppato in larga misura all’interno dei confini della cristianità si potrebbe ipotizzare che questo radicale conflitto culturale sulla natura umana abbia contribuito significativamente all’origine di venti secoli di antisemitismo cristiano.
 
59) Già nel X secolo “Abraham, figlio del famoso Mosè Maimonide, definiva i musulmani ‘quelli che hanno adottato il nostro tipo di religione”, A. Scandaliato, L’ultimo canto di Ester, cit., p. 32. Negli anni ’50 un teologo domenicano, G. Théry, scrisse, sotto lo pseudonimo di H. Zakharias, un testo - De Moisé à Mohammed. L’islam entrepise juive, Cahors, Parigi - in cui dichiarava sostanzialmente che l’Islam era solo una particolare forma di giudaismo spiegato agli arabi ed ipotizzando l’esistenza di un ‘Corano primitivo’ diverso dall’attuale. Ipotesi allo stato non dimostrabile, ma è opinione condivisa da molti arabisti (B. Lewis, Gli ebrei nel mondo islamico, Sansoni, Firenze 1991, P. Crone-M. Cook, Hagarism. The making of the islamic world, Cambridge University Press, Cambridge 1977) che l’Islam derivi in larga misura dal pensiero ebraico o tutt’al più di ambiti giudeo-cristiani.
 
60) A. Ventura, Ebraismo e Islam fedi rivali unite da un Dio inaccessibile, Corriere della Sera, 24.10.1997 intervista di M. Brambilla.
 
61) Mons. P. C. Landucci, La vera carità verso il popolo ebraico, in F. Spadafora, Cristianesimo e Giudaismo, Ed. Krinon, Caltanissetta 1987, p. 126, già pubblicata in ‘Renovatio’, 3/1982, pp. 349-363.
 
62) Ibidem. Si tratta della cosiddetta “teologia della sostituzione” secondo la quale la Chiesa si è proposta come novus Israël, il nuovo popolo dell’Alleanza, sostituendo la ‘vecchia’ Israele e procedendo anche in questo caso ad un fondamentale rovesciamento di senso dato all’espressione “popolo eletto”. Essa, nel sentire ebraico, aveva il significato di ‘separazione’ dagli altri popoli, ma non ha mai portato con sé l’idea di imporre ad altri la propria cultura o religione; si è caratterizzata come affermazione della propria identità culturale lasciando agli altri (al più disprezzandoli) la loro. Il nuovo “popolo eletto” cristiano, ha proceduto invece ad un’affermazione di identità che si costituiva per l’annullamento delle identità culturali altrui: da qui non solo l’opera di proselitismo, del tutto assente nella tradizione ebraica, ma anche procedure violente di conversioni forzate e di eliminazione fisica di eretici, animisti, ebrei, streghe.
 
63) Va precisato l’uso del termine ‘giudaico-cristiano’ nel senso datogli dalla sua origine illuminista che si proponeva di risolvere il problema giudaico con un’adesione ai ‘superiori’ valori umani proposti dalla razionalità: “Tra il XVIII e il XX secolo, si è avuta l’impressione che gli ebrei e i cristiani europei in Europa occidentale creassero insieme una cultura comune, una cultura ‘giudaico-cristiana’. Lo sviluppo della filosofia dell'Illuminismo ha condotto alla formazione di un discorso ermeneutico degli intellettuali ebrei e cristiani che rendeva conto della parentela del testo (l’Antico Testamento perlomeno) e da lì ne cambiava la lettura tradizionale. La nuova lettura (e l’annullamento delle differenze tra la lettura ebraica e cristiana che ne consegue) è strettamente legata all’entrata degli ebrei nella società europea”, D. Neuhaus, L’ideologia ebraico-cristiana e il dialogo ebrei-cristiani. Storia e teologia, in http://www.gliscritti.it/approf/neuhaus/ideo_e_c.htm, traduzione italiana curata da G. Balzerani dell'originale francese: L’idéologie judéo-chrétienne et le dialogue juifs-chrétiens. Histoire et théologie, RSR 85/2 (1997), pp. 249-276.
La proposta del dialogo ebraico-cristiano è stata ripresa dalla Chiesa dopo il Concilio Vaticano II. Anche l’apertura del mondo cattolico e del mondo politico, come già l’assimilazionismo otto-novecentesco, finito con lo sterminio di gran parte degli ebrei europei, suona come una possibilità di rapporto e dialogo - cui partecipano anche religiosi ed intellettuali di cultura ebraica - che sembra fondarsi sulla minimizzazione o sull’annullamento delle differenze; si caratterizza quindi per essere un’“ideologia interpretativa” sostanzialmente ingannevole. Questo dato di fondo non cambia anche se è evidente che, per gli ebrei, l’ingresso nella civiltà europea ha avuto l’importante significato di uscire dal ghetto e di separare religione e società, cosa che sarebbe stata molto difficile all’interno di un’ottica religiosa ortodossa, esattamente come lo è tuttora nel mondo islamico.
 
64) La definizione freudiana del bambino come ‘polimorfo perverso’ confermerebbe ‘scientificamente’ l’affermazione di un’originaria perversione/peccaminosità, ma la possibile obiezione circa l’ebraicità di Freud non deve trarre in inganno. Che Freud fosse dichiaratamente un ebreo ateo non impedisce di pensare che la sua mentalità fosse in realtà quella asburgico-cattolica, in seguito al processo di ‘assimilazione’ grazie al quale molti ebrei del XIX secolo hanno aderito alla cultura europea dominante perdendo tratti più o meno ampi della loro identità culturale. Né più né meno di quanto accaduto nel ‘600 nella comunità ebraico-olandese composta in massima parte da ‘marrani’, cioè da ebrei iberici convertiti al cristianesimo e successivamente tornati all’ebraismo: alcuni storici stanno indagando quanto di cultura cristiana era rimasto nella mentalità dei marrani. A questo proposito una conferma in M. Fagioli, “L’ombra di Bruno: l’uomo tra finito e infinito”, ‘Il sogno della farfalla’, 2/2008, p. 20 : “pur essendo Spinoza ebreo, potrebbe essere la matrice dell’incarnazione del cristianesimo: la materia non sarebbe altro che l’incarnazione di questo infinito che sarebbe Dio”. Spinoza, ebreo di Amsterdam, era infatti di origini familiari marrane.
 
65) Ed i cristiani non nascosero mai la loro repulsione per i ‘lascivi’ giudei. In un capitolo titolato ‘La morale giudaica’ la si definisce: “...è una morale molto larga; poiché il Talmud permette a’ giudei l’abbandonarsi alle loro passioni…”, Civiltà Cattolica, serie XV, vol. 5, fasc. 1022, 10 gennaio 1893, p. 150.
 
66) Anche in questo caso vanno evidenziate le differenze: “In contrasto con molti scrittori cristiani medievali che credevano che lo Spirito Santo non potesse essere presente mentre gli esseri umani erano impegnati nel rapporto sessuale, i cabbalisti - e l’ebraismo medievale in generale - sostenevano esattamente l’opposto: il rapporto tra moglie e marito porta la Shekinah, la presenza divina - nel letto coniugale”, D. Biale, L’eros nella Bibbia, cit., p. 147.  Nella mistica ebraica ed islamica si sostiene che il rapporto sessuale avvicini a Dio, in quella cristiana ci si avvicina a Dio tanto più quanto più ci si allontana dalla corporeità.
 


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