19/12/11

Israele, l'Islam e la Democrazia


Sergio Romano ha pubblicato sul Corriere del 16 dicembre una mia lettera vecchia di qualche mese, sul “problema” dell’essenza ebraica dello stato di Israele, con un suo lungo commento che, ovviamente, non permette repliche, ma che forse merita qualche precisazione.
 

Così alla mia lettera che riporto in fondo al post - in cui sostenevo che pretendere che Israele rinunci alla sua “essenza ebraica” ha il sapore di negare la particolare storia di oppressione subìta da quel popolo, culminata nello sterminio nazista – il commentatore del Corriere risponde in modo articolato chiedendo “Come è possibile che un tale Stato possa isolarsi e riservare alcuni diritti fondamentali soltanto a coloro che possono dimostrare di appartenere a una stessa stirpe ?

Domanda interessante, un po' vecchiotta, ma interessante. A cui però non so rispondere.
Potrei farlo se solo sapessi quali sono i ‘diritti fondamentali’ riservati ai soli ebrei. Ma lui non lo dice - forse li ipotizza solamente - e io non li conosco. Per quanto ne so nella dichiarazione di Indipendenza dello Stato di Israele - si può trovare facilmente in rete - c'è scritto che sarà uno stato "ebraico" ma che, contemporaneamente, "assicurerà completa uguaglianza di diritti sociali e politici a tutti i suoi abitanti senza distinzioni di religione, razza o sesso". Eccetera.
 
Gli arabi israeliani, cioè i cittadini israeliani di etnia araba (altra cosa è il problema relativo ai palestinesi dei Territori occupati che riguarda però tutt’altra discussione che contempli la situazione venutasi a creare dopo le due guerre del '67 e del '73), sono cittadini che hanno diritto di esprimersi, di pubblicare giornali, di usare i servizi pubblici, di farsi difendere dalla polizia e di chiedere giustizia alla magistratura (Salim Jubran è un giudice della Corte Suprema, di etnia araba e religione crstiano-maronita). Hanno diritto di fondare partiti e di far eleggere i propri rappresentanti nel Parlamento, dove in effetti siedono i deputati arabi. Il sistema scolastico è misto, con scuole laiche e religiose e istituti in lingua araba, ma la lingua araba è insegnata agli studenti ebrei e la lingua ebraica agli studenti arabi. La minoranza araba ha diritto di voto e deve pagare le tasse, come tutti. Gli arabi sono esentati dal servizio militare, per ragioni così ovvie che non vale la pena di discuterne, ma non lo sono ad esempio i drusi che pure appartengono ad una setta islamica (cioè non sono ebrei) e che sono noti per essere particolarmente duri con i palestinesi musulmani sunniti che spesso nella storia li hanno perseguitati. Per finire Israele è uno stato che ha due lingue ufficiali, l'ebraico e l'arabo. Esiste uno stato arabo in cui l'ebraico sia, o sia mai stato, lingua ufficiale ?
 
Se poi vogliamo andare sul fatuo allora ricordiamo che la serie televisiva di maggior successo è stata ideata, prodotta e interpretata da arabi in lingua araba (con i sottotitoli in ebraico) e che anni fa una ragazza araba, Rana Raslan, è stata eletta Miss Israele. Sciocchezze ? Certamente; ma lo stato di una società si misura anche da queste sciocchezze.

E’ possibile - senz'altro probabile - che esista una forma più o meno esplicita di reciproca insofferenza, di arroganza degli uni sugli altri; cosa di cui tutte le democrazie occidentali soffrono nei riguardi delle loro minoranze, ma che in Israele non può che essere accentuata da quasi un secolo ininterrotto di conflitto. Ci vorranno generazioni, dopo la pacificazione, perché questi problemi vengano affrontati positivamente, ma intanto so che esistono anche coppie miste, arabo-ebraiche, poche, ma quando un uomo e una donna trovano normale attrarsi e amarsi direi che c'è una qualche ragione di essere perfino ottimisti.
 
Ed è possibile o anche probabile che ci siano ingiustizie nella distribuzione della ricchezza, del lavoro o dei contributi statali. E se c’è è chiaramente ingiusto che ci sia.

Insomma, non mi pare che Israele sia una democrazia in pericolo di trasformazione in qualcosa di totalitario, solo per via della definizione "etnica" data allo Stato.

Da sempre si è dichiarata stato ebraico o stato degli ebrei se volete (non è esattamente la stessa cosa, ma alla fine è questione di lana caprina). E’ nata così, con la finalità di dare rifugio ad un popolo che per venti secoli ha vissuto come minoranza in casa d’altri e che, per questo, ha pagato un prezzo altissimo. Infine è stata riconosciuta dall’ONU, ben consapevole che stava autorizzando la nascita di uno stato "ebraico".
 
L’aspetto curioso è che su questa definizione “etnico-religiosa” si fa ciclicamente una polemica, molto datata, che però non trova mai una corrispondente polemica con gli stati che si definiscono “arabi” o “islamici”, anche se fanno derivare ugualmente l’identità nazionale da identità di appartenenza etnica o religiosa.
 
Quando qualcuno accuserà di ‘apartheid’ l'Egitto o la Siria perché si definiscono ufficialmente "arabi”, accetterò di trovare discutibile anche l'idea di definire “ebraico” lo Stato di Israele. Fino a quel momento la polemica mi sembra che abbia solo un vago sentore di conosciuto (e insopportabile) pregiudizio antiebraico. Fino a che si ritiene normale concedere ad altri ciò che non si concede a un ebreo, continuerò a pensare che c'è del razzismo sotto. E in un momento in cui di razzismo si parla molto nel nostro paese, non mi sembra inutile ricordare chi per venti secoli il razzismo l'ha subìto più di ogni altro.
 


Ma Romano afferma anche che uno “Stato etnico-religioso sia in stridente controtendenza rispetto a quello Stato costituzionale dei cittadini che è il traguardo ideale delle maggiori democrazie occidentali”.
Questa affermazione merita un pensiero più attento: uno stato moderno, costituzionale e democratico non è conciliabile con uno stato etnico-religioso, dice.

La cosa che forse non si perdona ad Israele è di essere nei fatti “uno stato moderno retto da principi democratici”, è sempre Romano che lo afferma, ma di volersi definire adottando un’identità etnico-religiosa, ritenuta incompatibile con quegli stessi principi. Le due cose non sono conciliabili, si dice. Quindi Israele, democrazia riconosciuta, perderebbe la sua democraticità se si definisse “ebraica” (cosa che ha fatto fin dall'inizio senza che per questo i suoi "principi democratici" ne fossero vanificati, a detta dello stesso Romano).

Teniamo presente quest’idea che uno stato moderno, costituzionale e democratico non è conciliabile con uno stato etnico-religioso.

Ebbene, proprio in questi stessi giorni il nuovo segretario del Partito Radicale Transnazionale, Demba Traorè, nato nel Mali e di religione islamica ha affermato che “non esiste incompatibilità tra Islam e democrazia”. Non si vede quindi perché mai dovrebbe essercene una tra democrazia ed ebraismo, anche fosse quello più ortodosso, cioè alla fine quello più simile alla cultura islamica. Siamo su posizioni diametralmente opposte a quelle di Romano. E sono posizioni interessanti perché gettano luce su una prospettiva di ricerca di vie nuove e diverse da quelle delle democrazie occidentali.

Qui la riflessione si deve allora fare più accurata. E scottante, perché il discorso di Romano mette esplicitamente in discussione che, non solo Israele, ma tutta l’area delle primavere arabe, in cui sembra che le formazioni islamiste più o meno radicali abbiano la maggior consistenza in termini di risultati elettorali, possa avere una qualche possibilità di accedere al mondo della “democrazia”, cioè che possano essere garantiti uguali diritti civili per tutti gli abitanti di quegli stati.

E' chiaro, a questo punto, che Romano vede e ritiene ottimale - momento supremo dello sviluppo politico della società - solo quella particolare prassi socio-politica che l’Occidente ha saputo immaginare, progettare e costruire e che ha chiamato democrazia.

La democrazia come obiettivo finale di un processo, tutto europeo, di superamento delle monarchie assolutiste e di fondazione di quei parlamenti nazionali che avrebbero dovuto assicurare la “libertà” ai popoli, attraverso l’elezione di legittimi rappresentanti. Il superamento dei Re per grazia di Dio, ottenuto con i lumi della Ragione. Liberté, egalité, fraternité.
 


Questo è il percorso occidentale verso la democrazia.
 
E’ l’unico ipotizzabile ? Siamo sicuri che non possano esistere libertà, uguaglianza e fraternità fuori da questo percorso ? Siamo ancora al "buon selvaggio" da educare alla nostra superiore civiltà ?
 
Gli altri, i popoli asiatici e africani, ne sono stati illuminati solo attraverso il colonialismo e, di sicuro, ne avrebbero fatto volentieri a meno. Più complesso il caso degli ebrei che vivevano per la maggior parte in Europa e che dall’illuminismo (che ha avuto anche una sua versione ebraica chiamata haskalah) e dalle sue varie articolazioni tarde hanno avuto un vantaggio, l’apertura dei ghetti, una novità su cui molto ci sarebbe da discutere, l’assimilazione - che ne ha ampiamente devastato l’identità culturale - e una solenne fregatura, lo sterminio.

Insomma, fra molte ambiguità, si propone e ripropone sempre e solo la democrazia occidentale come faro per i popoli. Massima espressione della civiltà, derivata dalla cultura elaborata dalle genti bianche di religione cristiana che hanno pensato di costruire lo stato moderno sostituendo alla religiosità tradizionale il culto della razionalità umana (ma alla fine riuscendo solo a coniugare ambiguamente ragione e religione con sommo gaudio del nuovo papa).
 
Ovviamente preferisco la libertà di parola, di movimento, di opinione, di riunione, di manifestazione eccetera che gli stati democratici offrono e preferisco anche quella un po’ trita sceneggiata delle campagne elettorali e delle elezioni al dominio incontrastato di un dittatorello o di un capotribù. Ma se posso criticare l'Islam politico non vedo perché non possa ipotizzare che il pensiero islamico trovi ampie consonanze con le libertà civili.
 
Detto questo non posso nascondere un dubbio: se si dice che la democrazia è incompatibile (anche) con l’Islam è conseguente che in tutta l’area islamica esistono degli oppressi e degli oppressori. Se non c’è democrazia, è indiscutibile che sia così. Che ne sarà di loro ? (è la stessa domanda che Romano pone a proposito delle minoranze non ebraiche in Israele). Che dobbiamo fare per alleviare le sofferenze degli oppressi ? Esportare la democrazia ? Torniamo alla dottrina Bush ?

Forse fra un numero imprecisato di anni ne riparleremo, intanto vediamo se le caratterizzazioni etnico-religiose sono davvero inconciliabili con la democrazia o almeno con una qualche forma di equità sociale, di libertà e dignità come hanno reclamato i popoli arabi in questi mesi. Lasciamo a tutti quelli che non hanno percorso la nostra stessa storia di umanesimo, rinascimento, illuminismo, positivismo eccetera la libertà di farsi la loro strada.
 
E smettiamola di pretendere che Israele sia la fotocopia esportata delle nazioni europee, che non hanno mai avuto la drammatica storia degli ebrei, ma che ne sono state casomai la causa; così come dovremmo smetterla di pensare che gli unici neri buoni siano quelli "bianchi".

I popoli che non hanno prodotto la moderna civiltà europea, magari potrebbero avere qualche idea migliore della nostra ed elaborare una ipotesi di società dove la religiosità che permea la società attuale potrà essere superata diversamente da quell'ingannatoria e parzialissima liberazione che l'occidente ha conosciuto.
 
Oppure dove le donne (speriamo senza burqa) non siano viste sempre e solo come madonne lacrimose o zoccole da avanspettacolo, ad esempio. O ancora una dove gli squali della finanza non riducano in cenere le speranze di generazioni di esseri umani.
 
Noi possiamo dare il nostro contributo di idee o di esperienza, magari. Giusto per evitare nazismo e comunismo, tanto per dire. Ma senza fare i saccenti, perché non abbiamo poi molto da insegnare. Siamo in una società dove ancora oggi una ragazzina preferisce dire di essere stata stuprata da uno zingaro piuttosto che ammettere di aver avuto una naturalissima voglia di fare l’amore.
 
Pensiamo a curare le ferite di questa nostra democrazia; non mi sembra che goda di ottima salute. Tutti, credo, dobbiamo fare un lavoro notevole per superare i limiti della filosofia politica che ha prodotto il nostro mondo.
 
Dare lezioni sedendosi sullo sgabello della Dea Ragione non mi pare il modo migliore per cambiarlo.



pubblicato su Agoravox http://www.agoravox.it/Israele-l-Islam-e-la-Democrazia.html 


Corriere della Sera 16.12.11
Israele: Stato ebraico oppure Stato degli ebrei?
 

Nella sua risposta a un lettore lei evidenzia con molta precisione i dati dei flussi migratori ebraici in Palestina. Dall'analisi di questi flussi si può dedurre che il sionismo come movimento politico non aveva avuto un gran successo (l'America era la vera terra promessa anche per gli ebrei), ma che poi fu fondamentale per assicurare una patria-rifugio a quelle centinaia di migliaia di persone in fuga dall'Europa nazificata o sopravvissute allo sterminio. In altri termini, Israele non è nata dal «colonialismo europeo» di fine Ottocento, come spesso si sente dire da alcune parti politiche, ma proprio dal popolo perseguitato, colpito e terrorizzato dalla più vasta, gelida, metodica, puntigliosa opera di «sparizione» di esseri umani che la cultura europea sia mai riuscita a concepire. Questo, insieme con il lavoro e la resistenza dei suoi «nuovi» abitanti, conferisce a Israele il suo diritto a esistere e — so che lei su questo non è d'accordo — a esistere proprio come Stato «ebraico», cioè di coloro che hanno condiviso la drammatica esperienza, diretta o indiretta, della persecuzione. È la genesi reale di questo Stato che ne fa una storia particolare; pretendere che Israele rinunci al suo carattere «ebraico» (cosa che forse accadrà un giorno lontano) ha un vago e incomprensibile sentore di negazione di questa specifica, terribile storia. Senza nulla togliere, sia chiaro, al diritto palestinese a uno Stato libero e autonomo, accanto a quello ebraico.
 
Fabio Della Pergola
 


Caro Della Pergola,
 
Lo «Stato ebraico» è quello in cui soltanto un ebreo può essere compiutamente cittadino. Credo nel diritto di Israele alla sua esistenza, ma rimango convinto che uno Stato etnico-religioso sia in stridente controtendenza rispetto a quello Stato costituzionale dei cittadini che è il traguardo ideale delle maggiori democrazie occidentali. Israele è uno Stato moderno, retto da principi democratici, caratterizzato da una brillante economia che lavora con il mondo e per il mondo. Come è possibile che un tale Stato possa isolarsi e riservare alcuni diritti fondamentali soltanto a coloro che possono dimostrare di appartenere a una stessa stirpe? Che cosa accadrà degli arabi musulmani e cristiani che sono già suoi cittadini? Che cosa accadrà dei lavoratori stranieri che sono arrivati in Israele grazie allo sviluppo della sua economia? Che cosa accadrà di quei rifugiati provenienti dall'Africa (circa 2.000 al mese nel corso dell'estate) a cui verrà concesso il diritto d'asilo?
Aggiungo, caro Della Pergola, che il concetto di Stato ebraico mi sembra essere in contraddizione con la filosofia politica del fondatore del movimento sionista. Il libro che Theodor Herzl pubblicò a Vienna nel 1895 s'intitola «Der Judenstaat» non «Der Jüdischer Staat»: lo Stato degli ebrei (o per gli ebrei), non lo Stato ebraico. Nove anni dopo, nel 1904, Herzl pubblicò a Lipsia un romanzo fantapolitico e utopistico («Altneuland», vecchia terra nuova) in cui si narra la storia di un ebreo viennese che approda in Palestina, dopo un lungo viaggio in Asia, e scopre con grande piacere una società moderna e vibrante in cui ebrei e arabi lavorano insieme alla creazione di un mondo migliore.
Osservo infine, caro Della Pergola, che l'instaurazione d'uno Stato ebraico, di cui oggi il governo Netanyahu chiede il riconoscimento ai suoi vicini arabi, avrà l'effetto di aumentare il potere dei gruppi ortodossi nella società israeliana. Abbiamo parlato molto della condizione della donna nel mondo musulmano; ed è giusto che si continui a parlarne. Abbiamo parlato meno delle pretese di quegli ortodossi ebrei per cui le donne non dovrebbero cantare in pubblico (la loro voce potrebbe suscitare pensieri impuri), dovrebbero camminare su marciapiedi diversi da quelli degli uomini e viaggiare su mezzi di trasporto in cui i due sessi occupino posti distinti. Nelle scorse settimane il Financial Times ha pubblicato corrispondenze da Gerusalemme di Tobias Buck da cui risulta che persino l'esercito, in occasione di una cerimonia, si è piegato alla richiesta di separare i soldati dalle soldatesse. So che esiste un forte ebraismo liberale deciso a difendere la laicità dello Stato. Ma se Israele fosse «Stato ebraico», la loro battaglia sarebbe più difficile.


Sergio Romano
 

Sullo stesso tema anche l'anno scorso Sergio Romano pubblicò una mia lettera - seguita da una sua lunga risposta.

Corriere della Sera, 24 Marzo 2010
LE REPUBBLICHE ARABE E LO STATO EBRAICO

Lei sicuramente sa meglio di me che la contrapposizione ideologica tra «Stato degli ebrei» e «Stato ebraico» fu ampiamente dibattuta fra i sionisti fino dagli inizi del loro movimento. Oggi credo che 60 anni e più di conflitti, e la Shoah, abbiano radicalizzato posizioni che prima potevano essere discusse. Penso che uno Stato laico e democratico potrà diventare reale se e quando un lungo periodo di pace e di convivenza farà prevalere l’idea di cittadinanza (israeliana) su quella di etnia (araba o ebraica). Resta l’incongruenza di mettere sotto il microscopio della critica continua l’essenza «ebraica» di Israele, da cui l’accusa di apartheid, ma non fare mai la stessa cosa nei riguardi, ad esempio, della Siria (denominazione ufficiale: Repubblica araba di Siria), dell'Egitto (Repubblica araba d'Egitto), della Libia (Grande Jamahiriyya araba di Libia popolare e socialista) o, ancora, di Sudan, Iran, Afghanistan, Pakistan, Mauritania che sono tutte repubbliche islamiche. Vale la domanda: e chi non è arabo? E chi non è islamico?
Possiamo parlare di apartheid anche in questi casi? È evidente che Israele è uno Stato democratico di tipo europeo, ma ha una sua specificità derivante dalla storia complessa del popolo ebraico, sempre minoranza in casa d’altri negli ultimi venti secoli e, per questo, sempre duramente colpito.

Fabio Della Pergola


Caro Della Pergola,

a proposito delle repubbliche islamiche non avrei difficoltà a ripetere ciò che ho scritto dello Stato ebraico.
È alquanto diverso, invece, il caso degli Stati che si definiscono arabi. Quando un gruppo di giovani colonnelli prese il potere al Cairo nel luglio del 1952 e costrinse re Faruk ad abdicare, il loro leader, Gamal Abdel Nasser, sognava un grande rinascimento arabo. Il suo obiettivo politico era una federazione che avrebbe riscattato gli arabi dall’umiliante ricordo della lunga cattività ottomana e li avrebbe definitivamente liberati dall’imperialismo europeo. Prese corpo così una ideologia panaraba che non era concettualmente diversa da certe forme di nazionalismo europeo fra l’Ottocento e il Novecento: panellenismo, pangermanesimo, panslavismo. Non bastava quindi sbarazzare l’Egitto da una dinastia che aveva ascendenze ottomane e aveva lungamente collaborato con le potenze coloniali europee. Occorreva farne il cuore di un movimento che avrebbe coinvolto gli Stati della costa meridionale del Mediterraneo.
Il libro di Nasser, «La filosofia della rivoluzione», divenne il vangelo politico dei giovani nazionalisti che aspiravano alla conquista del potere. Per Gheddafi, in particolare, fu il manuale a cui ricorse per programmare le sue prime mosse politiche alla fine degli anni Cinquanta e il colpo di Stato con cui rovesciò il regno di Idris nel 1969.
Vi fu persino un momento in cui il panarabismo di Nasser sembrò prossimo a materializzarsi.
Il suo primo successo fu il matrimonio fra Egitto e Siria nell’ambito della Repubblica Araba Unita (1958). L’esperimento durò soltanto tre anni e Nasser ne annunciò la fine con un melanconico discorso in cui si dichiarò certo che quella prima esperienza della «nazione araba» non sarebbe stata l’ultima. Ve ne furono altre effettivamente: una unione tripartita (Egitto-Libia-Siria) nel 1971, una unione fra Libia e Tunisia nel 1974, una unione fra Libia e Marocco nel 1984. Ma furono tentativi effimeri dovuti in gran parte alle improvvisazioni di Gheddafi. Il panarabismo era morto nel 1967 quando la vittoria israeliana nella guerra dei Sei giorni umiliò Nasser, vale a dire il solo uomo che potesse far valere, nell’ambito di un negoziato inter-arabo, il peso di una importante potenza regionale.
Ogni Stato arabo, da allora, tende anzitutto a rafforzare se stesso e a perseguire interessi che sono spesso alquanto diversi da quelli dei suoi vicini. La parola «arabo» sopravvive nelle loro denominazioni come traccia storica di un esperimento fallito.

Sergio Romano 

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