04/07/13

Perché gli ebrei ?

Lo storico Claudio Vercelli scrivendo il suo articolo titolato “Obbrobrio e seduzione” sul periodico delle comunità ebraiche, che riporto per intero in fondo a questo post, racconta con grande precisione il problema della pensabilità della Shoah intorno alla quale si sviluppano due filoni principali di interesse. 
Da una parte l’interesse, che è interesse a creare disinteresse agendo nel senso del taglio gordiano della questione: “la Shoah non è pensabile perché non è mai avvenuta”, pensiero che rappresenta il nodo centrale di quella sciocchezza storica chiamata negazionismo.
D’altra parte invece, scrive Vercelli, “è diffusissima la domanda sul perché. Quesito a tratti imbarazzante poiché è il punto di contatto tra ciò che è razionale, prevedibile e quindi commensurabile con quanto, invece, sfugge a tali categorie, che sono e rimangono comunque l’unico orizzonte del nostro modo di pensare e di pensarci”.
Queste parole mi hanno portato alla mente, forse per contrasto, una frase di Zygmunt Baumann che contiene una verità difficilmente contestabile; in Modernità ed Olocausto, sostiene di avere “il sospetto che l’Olocausto non sia stato un’antitesi della civiltà moderna e di tutto ciò che (secondo quanto ci piace pensare) essa rappresenta. Noi sospettiamo (anche se ci rifiutiamo di ammetterlo) che l’Olocausto possa semplicemente aver rivelato un diverso volto di quella stessa società moderna della quale ammiriamo altre e più familiari sembianze, e che queste due facce aderiscano in perfetta armonia al medesimo corpo.
Frase che arriva alla fine di una elaborazione all’inizio della quale anche lui, scrive, pensava “che l’Olocausto rappresentasse un’interruzione nel normale corso della storia” e, più specificamente, “una momentanea follia in un contesto di saggezza”.
Ecco dunque, invece, che “si può desiderare di negare tale connessione, ma Buchenwald appartiene all’Occidente tanto quanto Detroit: è impossibile rifiutare Buchenwald in quanto aberrazione casuale di un mondo occidentale fondamentalmente sano”: lo scrivevano Edmund Stillman e William Pfaff già negli anni ’60.
Parliamo quindi di una tradizione culturale che contiene in sé, forse già nella sua culla illuministica, la prassi sterminatoria che, non a caso, l’occidente razionale (e cristiano) ha praticato su larga scala in ogni continente dove ha messo piede per ‘portare la civiltà’ e, infine, nei campi che conosciamo con i loro nomi agghiaccianti: Auschwitz-Birkenau, Treblinka, Sobibòr, Chelmno e poi Buchenwald, Mauthausen e così via.
La domanda “perché gli ebrei?” scivola via, di anno in anno, da tempi ormai lontani senza trovare mai un approdo e una risposta esaustiva.
Non mi risulta che gli storici specialistici ritengano l’ideologia razzista, diffusa in Europa a cavallo tra ‘800 e ‘900, causa sufficiente a spiegare la Shoah; se non altro perché, se così fosse, smetteremmo tutti di chiederci “perché” e la domanda non sarebbe più imbarazzante, come scrive Vercelli, ma sarebbe semplicemente “la” risposta.
Invece non lo è. E allora si dovrebbe forse seguire la suggestione delle parole di Baumann e, prima di lui, di Stillman e Pfaff e di non so chi altro: in che misura - e perché - la cultura occidentale contiene in sé, come suo proprio elemento costitutivo una prassi di sterminio di ciò che appare, o è effettivamente, “diverso” da se stessa ?
La domanda quindi trasla da “perché gli ebrei ?” a “in che cosa la diversità ebraica era irriducibile rispetto alla cultura dominante in occidente ?”. Rispetto a cultura illuminista e a cultura cristiana.
Se, a proposito di quest’ultima, non è lecito prendere in considerazione le complesse aree del discorso religioso in cui esistono elementi di dibattito, di discussione ma che non costituiscono un radicale vita mea-mors tua né i vasti campi teologici su cui le due religioni addirittura concordano, è possibile invece, al contrario, isolare e prendere in considerazione il concetto che appare fondante del cristianesimo.
La definizione di natura originariamente peccaminosa degli esseri umani, definita dal dogma del ‘peccato originale’, si costituisce come un elemento antropologico di irriducibile opposizione tra cultura ebraica e cultura cristiana che, nei fatti, fa tremare le basi stesse di quest’ultima. Ne mina le fondamenta mettendo a nudo la non-necessarietà della ‘redenzione’ di un umano ontologicamente colpevole.
Un dogma che dichiara perduta l’imago dei a seguito della colpa originaria, originante in ognuno la stessa perdita di immagine divina capace di caratterizzare, e quindi di distinguere, l’umano dal non umano. A chi vive nella perversione originaria non si riconosce più dignità umana. 
E’ l’antica ‘Extra Ecclesiam nulla salus’ che agisce nel profondo di una dimensione culturale che riappare nella prassi universalista e assimilatrice, nel senso deteriore del termine, del nazismo dove nulla di diverso ha diritto di esistere; nulla che possa contrastare la pretesa verità umana di “essere per la morte”; nulla che si opponga a ciò che  “collega direttamente il nazismo al pensiero di Martin Heidegger, alla sua visione dell'uomo come «immerso sin dall'inizio nel niente»” (A. Carioti, Corriere della Sera, 23/03/2013); quel niente, quella mancanza originaria, filosoficamente determinata, cui la giovane Hanna Arendt opponeva caparbiamente l’idea di natalità, un “essere per l’inizio”.
Non poteva esistere la tradizione che da millenni si oppone a quella “morte dell’anima” nell’essere, stabilita dalla dogmatica agostiniana e, prima di lui, nell’Epistola ai Romani da Paolo di Tarso, come il catechismo della Chiesa cattolica tuttora evidenzia.
La prassi sterminatrice dell’Occidente illuminista e razionale, acquisita la prassi cristiana di disumanizzazione del diverso da sé, si rivela in tutta la sua capacità organizzativa e tecnica con il regime hitleriano, dove si fondono pensiero e prassi politica. E colpisce i ‘diversi’ la cui diversità vive nella tradizione millenaria che rifiuta l’idea di considerare l’umano colpevole a priori per una colpa non sua. Quindi un essere mortale, di una mortalità che è conseguenza, ci dice la tradizione rabbinica, del peccato di Adamo, ma non aprioristicamente morto anche  nell’anima e aprioristicamente abitato da una originale/originata non-umanità.
Allora gli ebrei erano i “testimoni viventi del deicidio”, come viene detto di solito riferendosi ai secoli dell’antigiudaismo cristiano, o piuttosto i testimoni viventi dell’idea dell’esistenza, nello specifico umano fin dalla nascita, di una primitiva innocenza e di una umanità a pieno titolo ? Carente forse, ma non “mancante”; fragile nella sua finitudine, ma non spiritualmente morta.
Era questa la diversità ebraica, insopportabile fino a rendere "necessaria" la prassi sterminatoria, il “diverso volto” della “civiltà occidentale” che ostinatamente continuiamo a chiamare giudaico-cristiana, accostando le vittime ai carnefici forse per la, ancora attuale, profonda incapacità di fare i conti fino in fondo con il pensiero dominante in cui viviamo ?


Claudio Vercelli - Obbrobrio e seduzione

Mi permetto qualche riflessione in occasione di Yom HaZikaron laShoah ve-laG’vurah 5773. In questo periodo mi capita con una certa frequenza di essere chiamato a parlare del volume sul negazionismo che ho pubblicato da poco presso un editore nazionale. Lo faccio spesso con grande piacere, qualche volta, invece, un po’ controvoglia. Non mi sottraggo alla discussione ma laddove immagino di sapere che questa si svolgerà secondo canali prevedibili e rituali mi sento leggermente demotivato. Il pubblico è quasi sempre numeroso: i libri che trattano, a vario titolo, ed anche nei più svariati modi, la storia del nazismo e delle sue malefatte (nel caso del mio testo il fuoco della riflessione è centrato su chi dà corpo ad una vera e propria controstoria, ossia un ribaltamento concettuale e anche materiale dei fatti medesimi, per cui quello che successe non sarebbe mai avvenuto), riescono ancora a raccogliere una buona attenzione. Naturalmente le motivazioni dei partecipanti sono tra di loro diverse per non dire assortite. C’è chi è appassionato di storia contemporanea, c’è chi è moralmente partecipe delle vicende che sconvolsero l’Europa e con esse dello sterminio sistematico delle comunità ebraiche, c’è chi sente di dovere assolvere a una sorta di debito civile, c’è chi viene a curiosare e poi ci sono quelli che, a vario titolo, potremmo definire pubblico professionale, che segue certi percorsi di lettura e di studio per formazione propria, a partire dagli studenti e dai docenti.
Il tema del negazionismo suscita in genere una forte polarizzazione: la stragrande maggioranza esprime un netto rifiuto, una piccola minoranza, a volte silente, tende invece a sentirsi non solo incuriosita ma anche attratta da ciò che si presenta con i caratteri del sensazionalistico, del ribaltamento del giudizio di senso condiviso, dell’aggressione spudorata (e falsamente ribelle) nei confronti di ciò che è invece assodato. Si tratta, in questi casi, di eccezioni. Pur tuttavia anche queste sussistono. Ma non è tanto su tale aspetto che vale la pena di soffermarsi quanto sull’effetto di trascinamento, per così dire, che il tema del negazionismo, che altrimenti parrebbe per molti di rilievo secondario (quando in realtà non lo è), esercita su tutta una serie di questioni che in ogni incontro, puntualmente, si ripropongono. La più importante di esse è quella della “pensabilità” della Shoah.
Così posta, tra il grande pubblico, la questione non ha nessun carattere strettamente filosofico. Rinvia semmai al problema, in sé irrisolto, di come razionalizzare e concettualizzare, del pari a qualsiasi evento storico, qualcosa che pur essendo un fatto concreto, cioè realizzato dagli esseri umani sulla base di una lucida volontà, sembra invece sfuggire alle abituali categorie che si usano per capire e giudicare le scelte collettive. È raro che qualcuno chieda del come si è consumato l’omicidio di massa, quand’anche in fondo non sa bene come le cose si siano effettivamente svolte, mentre è diffusissima la domanda sul perché. Quesito a tratti imbarazzante poiché è il punto di contatto tra ciò che è razionale, prevedibile e quindi commensurabile con quanto, invece, sfugge a tali categorie, che sono e rimangono comunque l’unico orizzonte del nostro modo di pensare e di pensarci.
I negazionisti, a ben vedere, risolvono sbrigativamente la matassa, il viluppo creato da questi interrogativi usando la spada, così come si fa con il nodo di Gordio: la Shoah non è pensabile perché non è mai avvenuta. Il vero scandalo non è il fatto che sia stata realizzata su questa terra da degli uomini contro altri uomini ma che ci sia ancora chi si ostina a perpetuare quella che loro chiamano la «menzogna di Auschwitz». In questo modo le inquietudini che ognuno di noi serba rispetto al nesso tra modernità e barbarie si sciolgono d’incanto, come per effetto di una potente magia. Per i negazionisti, che rinnovano l’antica tradizione antisemitica, il mondo in sé sarebbe buono e giusto se non fosse abitato da quegli individui menzogneri, gli ebrei, che nella loro incessante opera di mistificazione delle cose e della vita altrui sono arrivati a commettere un crimine intollerabile, quello di essersi inventati il ruolo di vittime (quando in realtà semmai sono solo dei carnefici).
La seconda questione che emerge continuamente è la riflessione sul ruolo del nazismo e dei fascismi e, come si dice tra gli storici, su come essi debbano essere “storicizzati”, ovvero contestualizzati con le loro specificità nell’epoca in cui si manifestarono e di cui furono, che ci piaccia o meno, espressione compiuta. Poiché, e qui il rimando ad alcuni aspetti del presente si fa pressante, un po’ tutti gli interlocutori colgono come l’affaticamento delle democrazie liberali negli anni venti, il vicolo cielo costituito dalle crisi economiche, le incongruenze dei sistemi politici così come l’assenza di democrazia economica e sociale costituiscano, allora come anche oggi, una miscela micidiale nella crescita e poi nell’affermazione di movimenti populistici, a base carismatica, che nel nome di un rinnovamento totale di società altrimenti ripiegate su di sé disintegrano le libertà, i diritti e, a volte, la vita stessa. Paralleli immediati tra quel che stato e quel che è oggi la nostra realtà quotidiana sono fuori luogo o comunque gratuiti, se non ponderati con la massima circospezione.
Tuttavia vi è il ripetersi, in certe situazioni, di alcune condizioni strutturali che non possono non fare riflettere. Soprattutto su un aspetto: se le società vengono abbandonate a sé, se le loro classi dirigenti deflettono al ruolo che gli compete, se viene meno la protezione e la tutela della collettività dinanzi a quei grandi problemi contro i quali i singoli, così come le famiglie, possono poco o nulla, allora si apre una voragine dentro la quale rischia di passare molto se non di tutto. A fronte del severissimo giudizio morale sul nazismo e sui fascismi, condiviso da tanti, non c’è altrettanta consapevolezza della sfida politica e culturale che quei sistemi ideologici continuano a rappresentare. Non basta contrapporre ad essi gli effetti disastrosi che produssero con le loro scelte scellerate, peraltro sottoscritte da una parte della popolazione. Non è un monito sufficiente. Ancor meglio: non è con un monito che si neutralizzi la potenza seduttiva di proposte politiche che hanno un vero punto di forza nel banalizzare la realtà, offrendo all’angoscia dei tanti percorsi di soluzione che, pur essendo nei fatti pericolosissime scorciatoie, sollevano dal peso della sofferenza personale tramutandola nell’insofferenza verso un capro espiatorio terzo. Quanto le democrazie si inceppano, cosa che avviene quasi sempre nel momento in cui i meccanismi che garantiscono la redistribuzione della ricchezza prodotta e la coesione sociale vanno in frantumi, nulla è più certo. Illusorio è poi il cullarsi nel pensiero che si tratti di un fatto di mera “educazione”. Il cliché del nazista cattivo e incolto ha funzionato assai poco nello spiegare il perché della compromissione del fior fiore della gioventù tedesca, cresciuta negli anni della Repubblica di Weimar, volenterosamente fattasi assoldare da un partito, divenuto infine regime, che ha garantito a parte di essa una mobilità sociale che nessun sistema liberale era stato capace di offrire. Per questo, e per molto altro, la partita rimane aperta, che ci piaccia o meno. Il nazifascismo, da questo punto di vista, non è mai del tutto morto. Neanche noi, tuttavia.


(7 aprile 2013)

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