31/10/10

Pensieri persiani...

Esiste un’immagine, nella cultura persiana antica, che non è così facile da trovare nelle altre culture ad essa contemporanee; è l’immagine di un uomo, sontuosamente vestito, con una bella barba curata ed il copricapo aristocratico. Un uomo che si presenta ai nostri occhi con le ali.

E’ la fravashi della cultura mazdaica persiana, una cultura che viene ancora datata con molta approssimazione, ma sicuramente precedente al VII sec. a.C.






Che cosa significava questa fravashi ce lo ha spiegato un grande orientalista, Alessandro Bausani, in un testo del 1951, Persia religiosa. Mi sono soffermato solo su sette pagine di questo testo centrale per lo studio dell’evoluzione religiosa persiana, perché mi è sembrato di intuire elementi antichi, ma di notevole importanza per una moderna riflessione sull’essere umano.

L'autore scrive: “Studi recenti (…) sembra abbiano assodato che l’idea di fravashi è associata alla “forza difensiva eroica” e avrebbe in origine indicato la forza protettrice e difensiva che emana da un Capo, anche morto…” (1).

Più tardi il concetto che vede nel Capo la capacità reale, anche postuma, di proteggere la comunità ed i singoli individui, va incontro ad una trasformazione: “Questa nozione originariamente aristocratica si sarebbe poi man mano “democratizzata”: ogni uomo ha allora avuto la sua fravashi che esercita la sua forza protettrice non solo per lui, ma a beneficio di tutti coloro che la invocano”.

Esisteva dunque un concetto prezaratustrico di fravashi caratterizzato in senso potremmo quasi definire animistico, ma gli sviluppi successivi, la ‘democratizzazione’ della fravashi, si incentravano invece sull’etica della scelta, tipica del pensiero di Zaratustra, da cui deriva una definizione più vicina alla mentalità moderna: “Le fravashi (…) sono un vero e proprio “doppio” trascendente degli uomini, passati, presenti e futuri. Anche i vivi hanno la loro fravashi, che in questo caso si avvicina anche - volendo continuare nei paragoni sempre pericolosi - al concetto del nostro “angelo custode”.

L’idea di “forza protettiva emanata da un Capo” si trasforma così nel tempo nel “doppio” - non visibile - di ogni uomo. Siamo ancora nel campo di una possibile raffigurazione mentale di un ‘altro’ se stesso, derivante dal pensiero che l’essere umano non è solo realtà materiale visibile. Può essere anche ‘sogno’, vale a dire immagine di esseri viventi, di storie, di avvenimenti reali tanto quanto il vissuto materiale, ma che scompaiono all’improvviso con l’aprire degli occhi fisici al risveglio. Pensare questo mondo (e se stessi in questo altro mondo) come ad un doppio di sé non appare come idea prettamente religiosa. Nemmeno il cosiddetto ”angelo custode” è interpretabile meccanicamente come elemento religioso; il nome di ‘angelo’ in fondo significa ‘messaggero’ o ‘intermediario’ fra il mondo della materia e il mondo immateriale e, quindi, pur preludendo ad una visione religiosa, non appartiene appieno - ancora - al mondo trascendente.

Poi però leggiamo: “Ahura Mazda mise le fravashi degli uomini (non ancora in carne) in presenza di una libera scelta che determinerà il loro destino: restare cioè nel mondo celeste al riparo dell’assalto di Ahriman (il Dio del Male) o scendere e incarnarsi in corpi materiali per combattere Ahriman nel mondo terrestre. Le fravashi alla proposta di discendere sulla terra risposero “sì”. Avviene così uno sdoppiamento; ora, in questo mondo terrestre, il vero uomo è la sua fravashi, il suo Io angelico che è nel contempo il suo Destino e il suo più vero doppio trascendente…

Dovremmo quindi cominciare a parlare di ‘anima immortale’ che scende ad incarnarsi in corpi materiali (e mortali) e “il vero uomo è la sua fravashi”. Il ‘vero’ uomo, la verità umana, adesso è (solo?) nella dimensione non materiale; il corpo materiale sembra definito unicamente come contenitore temporaneo della verità umana. Viene concettualizzata quella che appare come una scissione simile alla (quasi) contemporanea proposta culturale greca.

C’è un altro termine che spiega bene gli sviluppi posteriori della fravashi dall'iniziale entità guerriero-cavalleresca: l’idea di daêna, che sta in rapporto molto complesso con la fravashi. “E’ molto probabile che la fravashi guerriera sia stata assunta nello zoroastrismo come angelo emblematico dell’anima in quanto sceglitrice fra bene e male, mentre la daêna è concetto, molto simile, di ‘opere religiose (ben) scelte’ (…) Ne nasce (nella storia religiosa mazdaica) la singolare figura dell’anima-angelo-valkiria-religione, che è uno dei più originali prodotti dello zoroastrismo”.

La fravashi, da entità protettrice a carattere tribale, aveva compiuto una prima trasformazione che sembra simbolizzare il libero arbitrio umano; ora si trova accanto un’altra entità la cui ‘essenza’ è tutta da interpretare.

Un riassunto pahlavico (II cap. del Mênokê Khrat; il passo è un riassunto dell’Hadôkht Nask, un testo dell’Avesta) parla dell’incontro dell’anima dopo la morte con la daêna. L’anima del giusto passa il ponte Civat, il ponte che unisce la terra al cielo su cui dovevano transitare le anime dei defunti, e in quel momento “le buone opere da lui compiute si avanzano verso di lui sotto la forma di una fanciulla, più bella e più buona di qualunque fanciulla del mondo. L’anima del giusto dice allora: ‘Tu chi sei che non ho visto mai al mondo una fanciulla più buona e più bella di te ?’ In risposta così soggiunge quella forma di fanciulla: ‘Io non sono una fanciulla, ma sono il tuo retto agire, o giovane dal retto pensiero, dalla retta parola, dalla retta azione, dalla retta religione ! (…) Io sono i tuoi retti pensieri, le tue rette parole, le tue rette azioni che tu hai pensato, detto, fatto. Poiché se io ero già stimata tu mi rendesti ancora più stimata e se ero già onorata tu mi rendesti ancora più onorata e se già splendida io ero, tu ancora più splendida mi rendesti’”.

Anche se “…in testi ancora  più tardi (Vendidad 10.18 e 5.21) daêna e urvan (spirito, anima) sono quasi sinonimi” ancora il processo di appiattimento non pare compiuto: “…daêna non significa propriamente ‘anima’ quanto ‘religiosità’ in senso astratto, anche se la dualità del senso di daêna è come quella delle entità Amesha Spenta che sono sia virtù personali sia aspetti divini” tanto più “se si pensa alla facilità con cui il linguaggio zoroastriano personifica ‘angelicamente’ il Buon Pensiero e la Docilità”.

Sia la daêna che gli Amesha Spenta dello zoroastrismo indicano entità che sono allo stesso tempo ‘virtù personali’ e ‘aspetti divini’. Si tratta quindi di ipostasi delle qualità umane, un modo di indicare le caratteristiche etiche o morali dell’uomo, avendo ancora a disposizione pochi strumenti per concettualizzarle o, al contrario, avendo abbastanza fantasia per creare immagini ricche di contenuti umani; ne consegue l’immediata trasposizione in “aspetti divini”, cioè appartenenti ad un’altra dimensione, ma mantenendo uno stretto rapporto con caratteristiche proprie dell’umano.

La daêna infatti parla chiaro: “Io sono i tuoi retti pensieri, le tue rette parole, le tue rette azioni che tu hai pensato, detto, fatto”. Va oltre la materialità percepita, ma non ne trascende; forse, più chiaramente, indica le intenzionalità reali nascoste nelle parole e nelle azioni. E in questo ‘oltre’ arriviamo forse a comprendere meglio il segreto di questa misteriosa entità. Il termine daêna si connette infatti alla radice dên che significa ‘religione’, ma “...dên (che si è troppo univocamente tradotto sempre con ‘religione’ ha anche il valore ben più attivo e personale di ‘rivelazione’ (…) così le buone e le cattive opere sono daêna cioè ‘rivelazione dell’anima’ dell’uomo”. 

Ma “più comunemente l’etimologia si riporta alla radice di ‘vedere’ (…) e si insiste spiegando naturalisticamente  (…) sia come ‘facoltà di vedere’ sia come ‘oggetto di visione’”.

Il problema della daêna sta nella doppia valenza di elemento psicologico e di elemento religioso insieme, problema che gli studiosi hanno trovato molto difficile da dirimere. “…è abbastanza singolare per una mentalità del XX secolo che una stessa parola possa significare ‘religione’, il ‘doppio dell’anima’ e una ‘fanciulla’ che più o meno ambedue le rappresenta”.

Proviamo ad orientarci. Ci vengono proposti tre termini su cui riflettere: ‘religione’, ‘doppio dell’anima’ e ‘fanciulla’ che rappresenta sia l’una che l’altra.
Abbiamo visto che dên ha valore di ‘rivelazione’, più che di religione in termini moderni. Valore cioè di svelamento, di rendere manifesto ciò che è occultato; infatti l’etimologia riporta alla ‘facoltà di vedere’. Ci sembra di poter escludere che il significato attenga ad una visione fisica, parliamo perciò di una capacità di vedere qualcosa che è latente al comportamento visibile; qualcosa che è anche ‘oggetto di visione’. La daêna quindi è ‘vedere’ ed ‘essere visto’ nella dimensione più intima e profonda dell’animo umano.

L’anima del giusto, quando incontra la daêna, si rapporta ad una sua propria dimensione latente che  dice “io sono le tue rette opere…”.  Forse ci avviciniamo a comprendere la differenza: ‘anima del giusto’ sembra attenere ad una dimensione etica. Infatti la fravashi si caratterizza in epoca zaratustrica, come capacità di ‘scelta’ fra il bene e il male, come qualcosa di vicino al libero arbitrio e sembra quindi connettersi alla sfera cosciente; sembra essere l’anima in senso etico, la volontà che sceglie.

La daêna appare invece come più prossima al contenuto latente della volontà cosciente stessa. Ne svela l’intenzionalità nascosta.
Se la fravashi è l’anima, la daêna appare come l’anima dell’anima, il contenuto del contenuto: ecco il ‘doppio dell’anima’.

Resta infine la ‘fanciulla’ che “più o meno” le rappresenta entrambe. Perchè una ‘fanciulla’ ? Perchè la ‘più bella e la più buona fra le fanciulle’ ? Se parliamo di una dimensione inconscia che parla del ‘retto pensare, dire, agire’, perchè tutte queste caratterizzazioni sono in positivo, quando abbiamo letto sopra che “le buone e (ma anche) le cattive opere sono daêna cioè ‘rivelazione dell’anima’ dell’uomo”?

Per quale motivo una bella e buona fanciulla dovrebbe rappresentare anche le cattive opere’ dell’anima di un uomo? Viene il dubbio che la ‘bella fanciulla’ rappresenti esclusivamente la dimensione interna, l’immagine, dei ‘giusti’ che trovano spiegazione del loro retto pensare e agire proprio nell’avere a priori in sé, latente, una bella immagine di giovane donna. Il giusto allora non è tale per il “retto agire”, non è ‘giusto’ in quanto capace di scegliere il bene con un atto di volontà cosciente, ma è tale in quanto ha una ‘bella fanciulla’ come sua propria immagine interna. L’essere ‘giusto’ è la conseguenza dell’avere in sé un’immagine interna di bella fanciulla.

È questa daêna, astrazione personificata attestata nel pensiero di Zaratustra quella che ha modificato in senso zoroastriano la più guerriera fravashi”; l’idea protettiva, piena di bellicosità, dell’animo antico sarebbe stata modificata in senso etico quando Zaratustra stesso ha elaborato il concetto di daêna. Cioè quando ha immaginato presente, accanto o nascosta dietro alla volontà cosciente, un’immagine interna. La paura e il bisogno di protezione, delegata alla forza emanata da un personaggio di grande spessore anche dopo la sua morte, lascia il campo alla possibilità di agire eticamente dell’individuo. La paura dell’ignoto si dilegua facendo apparire un essere umano non più rannicchiato e tremante, ma eretto e consapevole. Sembrerebbe una svolta verso una maggiore razionalità nel rapporto con il mondo, ma l’immagine femminile è presente, non è sparita ed è lei che fa il giusto, non l’agire cosciente e razionale. E’ l’immagine interna che determina la scelta etica.

L’immagine femminile conforma l’agire umano e lo obbliga, senza che apparentemente esistano obblighi a lui esterni, ad agire giustamente.


Da Persepoli a Gerusalemme

…ma la religiosità insita nel pensiero persiano, non ‘vista’, non chiarita e tantomeno rifiutata, nascondeva l’inganno.

E così, non si sa quando, comunque “…in testi ancora più tardi”, troviamo che “daêna e urvan (spirito, anima) sono quasi sinonimi”. La datazione è un problema per determinare le eventuali ricadute ideologiche dentro e fuori la cultura persiana. Qui si procede per ipotesi, ma è chiaro comunque che l’immagine femminile in un qualche momento si è appiattita sull’idea di anima spirituale, si è disincarnata e staccata, volteggiando, lontana ormai dai corpi degli uomini e delle donne. La daêna ormai era diventata urvan.

L’immagine femminile perde la concretezza del rapporto dell’uomo con la sua immagine interna, con il suo stesso irrazionale, che si stacca da lui e si perde nell’astratta infinità dei cieli. Quella che appare come una formidabile intuizione sulla verità umana di Zaratustra va incontro ad una drammatica ed epocale scissione e la Persia preislamica, non si sa quando, perde la sua ‘fanciulla’...

I grandi Re di Persia, la dinastia achemenide, avevano già questo pensiero, forse, quando mossero in armi verso le meravigliose pianure della mezzaluna fertile; o portavano con loro, ancora, l'immagine femminile?

La storia ci dice solo che conquistarono tutto il Vicino Oriente antico avanzando con la forza inarrestabile di un uragano e annettendo l’orgoglioso impero babilonese; in quella terra di Babilonia trovarono i rappresentanti di un piccolo popolo quasi insignificante ed ormai prossimo ad uscire per sempre dalla storia senza avervi lasciato alcun segno degno di nota: gli ebrei.

Trovarono nella capitale la loro corte reale in esilio e molte miglia più a sud, sulle rive dell’Eufrate, trovarono anche i sacerdoti, l’aristocrazia di quel popolo. Erano lì da quasi settant’anni, un paio di generazioni, dopo che Gerusalemme era stata conquistata, le mura abbattute, il Tempio distrutto, il popolo disperso. Secondo le usanze di assiri e babilonesi, i popoli sconfitti non venivano sterminati, ma annientati, ridotti a ‘niente’; mescolati con altri popoli, culture, religioni, etnie fino a farli sparire nell’interesse ed immediato tornaconto dei conquistatori. Per questo gli strati ‘alti’ dei popoli sottomessi venivano deportati e tenuti sotto controllo; perchè non potessero agire contro la politica assimilatrice della logica imperiale.

Non ragionavano così i grandi Re di Persia secondo i quali ogni popolo doveva invece essere libero in cultura, usi, costumi e religione; tollerati in nome di una pace (e di una esosa tassazione) che doveva regnare sovrana per non disturbare il gran sogno di attraversare il mare e conquistare le città greche, proseguendo il cammino verso occidente iniziato anni prima quando da Persepoli, l’antica capitale del regno, Ciro il Grande, giunto ai bordi dell’altopiano iranico, per la prima volta aveva abbassato lo sguardo verso l’immensa vallata distesa fra il Tigri e l’Eufrate, i due grandi fiumi dove era nata la storia.

Non ragionavano così e, per questo, acconsentirono a lasciar partire verso Gerusalemme il re e la sua corte, i grandi ufficiali e gli scribi, i sacerdoti, i nobili, i colti, gli artigiani e i soldati e le loro famiglie e i loro servitori. Due lunghe carovane ricondussero i notabili ebrei nella loro antica capitale. L’esilio babilonese era finito.

Nei testi biblici si parla del Re e del Gran Sacerdote e dei loro contrasti e del loro diverso pensare, elaborato nei lunghi anni babilonesi. Il Sacerdote si affianca al Re, poi gli si inchina, poi gli si oppone e, ad un certo momento, del Re non c’è più traccia. La casa di David esce di scena improvvisamente e per sempre; i Sacerdoti prendono le redini del potere e della ricostruzione dello Stato. Ancora disordini forse, forse addirittura una devastante guerra civile (simbolicamente rappresentata dall'episodio del vitello d’oro e della distruzione dell’idolatria) se il gran Re di Persia decide di mandare in tempi diversi due alti esponenti del popolo ebraico come suoi funzionari a ripristinare l’ordine e stabilire quella tranquillità che doveva essere mantenuta in ogni angolo dell’impero. Esdra e Neemia erano i loro nomi ed imposero a Gerusalemme la loro volontà e l’ideologia della casta sacerdotale ormai insediatasi nelle stanze del potere.

La Legge fu imposta ed il culto degli dèi stranieri fu proibito e proibite le loro rappresentazioni idolatriche perchè Dio era uno e doveva essere uno solo; e furono proibiti i matrimoni misti e la contaminazione fra i popoli. L’annientamento babilonese era quasi riuscito, ma, davanti alla minaccia di sparizione, la cultura ebraica si era ribellata e aveva affermato la sua esistenza: ...noi ci siamo, esistiamo e Dio ha un rapporto speciale con noi che siamo il popolo da lui scelto per indicare con il nostro comportamento la via della salvezza per tutta l’umanità. Siamo quasi stati cancellati per aver ceduto alla contaminazione con altri, ma questo non succederà mai più.

La nuova ideologia era quella di Ezechiele, l’ultimo dei profeti maggiori e i Sacerdoti ne articolarono le ricadute politiche, sociali e religiose in un complesso di norme ‘di purità’ tanto puntigliose quanto pedanti. Il grande sogno mistico di Ezechiele, la sua visione cosmica, che si ampliava fino a vedere l’infinito, ridotta ad una sequenza di divieti e precetti che regolavano il cibo, le cure mediche, il sesso, il rapporto fra gli uomini e fra uomini e animali e fra uomini e sacerdoti e fra sacerdoti e riti e l’abbigliamento e che fare delle stoviglie rotte… perchè lui, Ezechiele, aveva detto che bisognava distinguere fra il puro e l’impuro, fra il sacro e il profano. Un pazzo, un visionario, un violento psicopatico o un grande del pensiero umano ?

Contro l’aristocrazia Sacerdotale che aveva già messo mano alla stesura della Torah, il pentateuco di Mosè, raccogliendo opere antiche ed elaborazioni più recenti, l’ideologia degli albori ebraici ed il pensiero contemporaneo, prese vita e forma una corrente di pensiero che era opposizione culturale, religiosa, ideologica ed infine anche politica.

Capofila di questa opposizione alla tradizione Sacerdotale fu una nuova corrente religiosa interna al mondo ebraico che si sviluppò forse tra V e IV a.C. “il cui pensiero si distingueva nettamente dal resto della produzione giudaica del suo tempo” (2).
L’ebraismo, che non era mai più stato monolitico fin dai tempi dei Re, di David e di Salomone, andò incontro ad una scissione in correnti di pensiero che furono e rimasero parallele (ma contrastanti) fino alla loro definitiva divaricazione radicale.
Tante cose caratterizzavano la differenza fra la nuova corrente, chiamata enochica perchè Enoch era il patriarca di riferimento non Mosè, e la corrente Sacerdotale al potere. Una di queste era il credere nell’esistenza di un’anima immortale, idea che i Sacerdoti aborrivano e rifiutavano con radicalità.

La corrente enochica portò nel giudaismo un modo completamente nuovo di intendere e vivere il rapporto uomo-Dio, cioè la religione. La base del cambiamento è la nuova antropologia: l’uomo non finisce la sua vita con la morte, ma la può continuare in una dimensione diversa e migliore (…) L’interesse per le cose di questo mondo è bilanciato e forse superato da quello per l’aldilà, dove tutto ciò che è paura, sofferenza e morte non esisterà più. L’enochismo fonda la religiosità moderna, visibile soprattutto nella derivazione cristiana” (3).

L’anima incorporea aveva preso il posto dell’immagine femminile che ogni uomo porta in sé, legata al suo essere umano e maschio così come ogni donna porta in sé l’idea e la speranza di poter incontrare, un giorno, un ‘giusto’ dal ‘retto agire, parlare, pensare’. L’anima aveva distrutto l’immagine dell'altro da sé strappandola al corpo degli uomini e delle donne. E, senza di essa gli uomini e le donne diventarono carne capace di muoversi, ma senza avere più quella vita vera che deriva da una fantasia di immagini strettamente legate, una cosa sola, con la concretezza della loro corporeità.

L’esistenza dell’anima incorporea fa degli uomini esseri fatti di puro spirito e delle donne carne da usare. Su questo si fondano i primi testi della corrente enochica quando raccontano di come gli Angeli Vigilanti, esseri spirituali e immortali, videro le donne umane e decisero di unirsi a loro: “E si presero, per loro, le mogli ed ognuno se ne scelse una e cominciarono a recarsi da loro. E si unirono con loro ed insegnarono ad esse incantesimi e magie e mostrarono loro il taglio di piante e radici. Ed esse rimasero incinte e generarono giganti la cui statura, per ognuno, era di tremila cubiti” (4).

Ma perchè, si chiede Dio… “perché avete lasciato il cielo eccelso e santo e vi siete coricati con le figlie degli uomini? (...) Voi, esseri spirituali, santi, viventi la vita eterna, avete commesso impurità sulle donne… avete fatto come fanno gli uomini, che sono sangue e carne, che sono mortali e distruttibili. Per questo Io detti loro le donne…” (5).

I veri uomini sono esseri spirituali, immortali che mai avrebbero dovuto comportarsi come gli uomini non spirituali, quelli di carne e sangue, che si uniscono alle donne perchè sono mortali e le donne servono loro, per la riproduzione. Carne da usare per assicurare la continuità della specie.

E dissero al loro Signore (…) vedi, allora, quel che ha fatto Azazel, come egli ha insegnato tutte le pravità sulla terra ed ha reso manifesti i segreti del mondo che si compiono nei cieli e (vedi come) Semeyaza (…) ha insegnato gli incantesimi e (vedi come) andarono dalle figlie degli uomini, insieme, giacquero con loro, con quelle donne, si resero impuri e resero manifesti, ad esse, questi peccati, e (vedi come) le donne generarono i giganti e, perciò, tutta la terra si riempì di sangue e di pravità” (6).

Per fare come gli uomini di carne e sangue gli esseri spirituali, gli Angeli Vigilanti, Azazel, Semeyaza e molti altri come loro, erano scesi a unirsi con le donne ed avevano insegnato loro, in cambio della loro capacità procreativa, la loro sapienza, i segreti del mondo, gli incantesimi e le magie, il taglio delle piante e delle radici; per questo scambio di ‘sapere’ contro ‘creare’, il Male si diffuse su tutta la Terra.

L’ideologia enochica stabilisce che il Male, i figli del connubio, deriva dal rapporto carnale fra uomini spiritualizzati e donne che sono solo animali da riproduzione. Dopo aver disincarnato l’immagine femminile e fatta propria l’idea di ‘anima’ si scopre così l’orrore del rapporto fra uomini e donne ‘peccaminosi’. Il Male si diffonde nel mondo come una peste. Ma la peste non è l’unione sessuale tra un uomo e una donna, come affermavano gli ebrei di pensiero enochico (e come penseranno poi i cristiani), la peste è l’anima scissa dal corpo, la peste è aver disincarnato l’immagine interna.

L’anima immortale e disincarnata era entrata in Gerusalemme, proveniendo dall’esterno dell’ebraismo, idea nuova e straniera. Come nuovi e stranieri erano i Persiani. Forse furono loro a portare la contaminazione di un pensiero violento nel vicino oriente, se accettiamo una datazione alta (al V-IV sec. a.C.) del Libro dei Vigilanti; se invece consideriamo più attendibile la datazione più tarda (al IV-III sec. a.C.), allora è al mondo greco che dobbiamo guardare, al mondo che travolse ogni resistenza quando Alessandro il Macedone giunse in Asia nel 334 a.C. (7).

E' noto che "...la cultura iranica con cui venne effettivamente in contatto il mondo ebraico di Babilonia è ignota..."(8) per le problematiche datazioni del pensiero persiano, per cui ogni congettura è ardua e non può essere altro che ipotesi di ricerca.

In ogni caso della ‘più bella fra le belle’ nel pensiero dell'apocalittica giudaica non c’è più traccia... e il nuovo mito, la matrice di un’ ideologia che si svilupperà cinque secoli più tardi nel cristianesimo, si fonda su un’ idea particolare: il Male si diffonde quando gli Angeli si uniscono alle donne. Quando l’Angelo fa l’amore con la Donna. Non è l’originaria devastazione dell’immagine di Amore e Psiche ? 

novembre 2010

Note

1) Alessandro Bausani, Persia religiosa, pp. 65-72.
2) Paolo Sacchi, L’apocalittica giudaica e la sua storia. Anche la datazione proposta è di Sacchi.
3) P. Sacchi, Il problema “apocalittica”, pubblicato in «Credereoggi» XIV, LXXX, 1994.
4) Libro dei Vigilanti, 7.
5) Libro dei Vigilanti, XV-3,4. 

6) Libro dei Vigilanti, IX-4,10. 
7) Per una datazione alta al V-IV sec. a.C. corrispondente al periodo persiano del Vicino Oriente, propende la scuola italiana (Sacchi, Bocaccini); quella bassa, al IV-III sec. a.C., fase ormai grecizzata, è invece proposta da Collins e Nickelsburg (Cfr. P. Sacchi, La storia del Secondo Tempio e le origini cristiane). 
8) P. Sacchi, Tra giudaismo e cristianesimo. Riflessioni sul giudaismo antico e medio, p. 120.

Bibliografia

 
cfr. anche in questo blog: La fanciulla persiana 
                                         Amore, Psiche e gli Angeli Vigilanti 
                                         Vergine o giovane donna ?

Bausani A., Persia religiosa, Il Saggiatore, 1951.
Gnoli G., La religione zoroastriana in Storia delle religioni, Vol. I, Le religioni antiche a cura di G. Filoramo, Ed. Laterza, 1994. 
Sacchi P., Sacro/profano, impuro/puro nella Bibbia e dintorni, Morcelliana, 2007.
Sacchi P. (a cura di), Apocrifi dell’Antico Testamento, UTET, 2006.
Sacchi P., L’apocalittica giudaica e la sua storia, Paideia, 1990.
Sacchi P., La storia del Secondo Tempio e le origini cristiane, in http://www.christianismus.it, 2010.
Sacchi P., Tra giudaismo e cristianesimo. Riflessioni sul giudaismo antico e medio, Morcelliana, 2010.




                                                                                                ...

Relativamente alla figura della daêna si scoprono cose molto interessanti da una semplice ricerca su Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Religione#Definizione) che qui riassumo:

Il termine "religione" nelle culture del Vicino e Medio Oriente

In lingua ebraica il termine occidentale "religione" viene traslitterato in caratteri latini come dath, che sta per "editto", "legge", "decreto". L'ebraico dath deriva dall'avestico e dall'antico persiano dāta.


Il termine avestico dāta possiede in quella lingua sempre il significato di "legge" o di "legge di Ahura Mazdā", ovvero legge del Dio unico e supremo dello Zoroastrismo.

(http://www.iranica.com/articles/data)
 

In lingua araba il termine occidentale "religione" viene traslitterato in caratteri latini come dīn, che deriva dal medio persiano dēn che, a sua volta, deriva dall'avestico daēnā che in quella antica lingua significa "religione" intesa come splendore, luminosità di Ahura Mazdā. Daēnā a sua volta proviene, nella medesima lingua, dalla radice dāy (vedere). 
(http://www.iranica.com/articles/den)

Anche se al termine dīn si attribuiscono tre diverse origini etimologiche (una ebraico-aramaica che ha il senso di 'giudizio', una più vicina a 'consuetudine' che deriverebbe da una radice araba che significa 'debito' e la terza che sarebbe la versione derivante dall'avestico di cui sopra.

In breve le culture del Vicino Oriente definiscono religione con termini derivanti sempre dall'avestico. Nel caso dell'ebraico si lega più al significato di 'decreto legislativo', mentre nel caso dell'arabo il legame sembra essere con il termine daêna che, a sua volta, deriva da "vedere, essere visto" e all'immagine femminile che è corretto definire come 'immagine interna'.

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