12/02/11

La fanciulla persiana

Lo sappiamo da sempre, per via di una concezione antica che prevede un resoconto finale, preludio ad un finale giudizio...


prima o poi si deve morire e prima o poi, si dice, dovremo rendere conto delle nostre azioni.

Il che suona parecchio minaccioso anche se si è voluto poi indorare la pillola con promesse di eterne beatitudini, celestiali e rigorosamente asessuate nel mondo cristiano, eccitanti in quello islamico per via delle famose settantadue vergini a disposizione di ogni buon musulmano; donne - le urì - in premio post mortem a fronte di un comportamento retto e pio. 

Già meglio - quantomeno un’ ipotesi un po’ più gradevole - rispetto al prevalere nella cristianità del puro spirito, ma pur sempre un’impostazione un bel po’ maschilista che vede le belle fanciulle dagli occhi neri messe in palio, per il godimento del pio musulmano, sempre gradevoli d’aspetto, sempre desiderabili e sempre nuovamente vergini dopo ogni amplesso, ma anche sempre indifferenti alle traversie terrene: se ce la fai sono tue, sennò niente. Per loro è uguale.


Più seducente delle vergini coraniche appare perciò la fanciulla persiana da cui pare che quelle derivino, attraverso uno di quei misteriosi meandri che fa affascinante la storia umana. Parliamo dell’incontro dell’anima dopo la morte con la daêna, in un passo dell’ Hadôkht Nask, un antico poema della letteratura avestica; è "il racconto zoroastriano della sorte dell'anima".

Siamo nella Persia preislamica e un grande orientalista italiano, Fabrizio Pennacchietti, ci racconta: “Sulla daêna esiste una ricchissima letteratura. Essa non è la Morte né l’Angelo della morte. E’ piuttosto la personificazione dei pensieri, delle parole e delle azioni buone o cattive compiute dall’uomo, la custode dei meriti e dei demeriti accumulati nel tesoro celeste, il “doppio” trascendente dell’anima, in conclusione la vera coscienza dell’uomo”.

Ed ecco che all’anima del giusto, portata da un profumato vento meridionale, la daêna “appare sotto forma di una giovane fanciulla, bella, raggiante, dalle bianche braccia, robusta, dal viso grazioso, slanciata, dal bel seno vigoroso, di nobile sembianza, di rango elevato e glorioso, quindicenne all’ aspetto, di forme più belle della più bella di tutte le creature”.

E quando lui le chiede “chi mai ti ha amata per avere tu questa maestà, questa bontà, questa bellezza, questo profumo, questa forza con cui mi appari ?”, la risposta della fanciulla suona struggente “O giovane di buon pensiero, di buona parola, di buona azione, di buona visione… tu mi hai amata per questa maestà, questa bontà, questa bellezza, questo profumo, questa forza con cui mi vedi apparire (…) così, amabile, tu mi hai resa più amabile; bella, tu mi hai fatto più bella; desiderabile, più desiderabile; seduta in un luogo eccelso, tu mi hai fatto sedere ancora più in alto…” (1)

Se nell’Islam si spera in una ricompensa paradisiaca costituita dalle splendide vergini celesti a fronte di un ‘buon’ comportamento in terra, “per il pio zoroastriano ogni buon pensiero, ogni buona parola e ogni buona azione hanno principalmente lo scopo di rendere più bella e più splendente la propria daêna”; non siamo nell’alto dei cieli, qui si parla di un aspetto profondamente umano, anche se non immediatamente materiale. 

E’ un’immagine che l’uomo dell’antica Persia sa di avere in sé e che tende con il suo “retto pensiero” a rendere sempre più bella; il suo comportamento è obbligato dall’esigenza assoluta di avere un’immagine di adolescente che sia “la più bella fra le belle”, perché è l’immagine femminile che “fa” il comportamento ed il pensiero umano che non può essere che onesto, retto, pulito. Adeguato alla pretesa assoluta della sua propria immagine interna.

Non si è puliti per paura del castigo o per brama di una remunerazione nell’ aldilà: qui non c’è minaccia né premio. 
Se l’immagine interna è bella il comportamento la fa ancora più bella, in caso contrario essa si sciupa e “…un vento freddo e puzzolente che viene dal nord preannuncia l’arrivo di una giovane orribile e repellente, dalla voce stridula e assordante che, piena di rancore, gli rinfaccia di averla ridotta in quello stato deplorevole…”. Il destino è segnato nel dramma angosciante che Dorian Grey ci ricorda, quando svela il dipinto della sua stessa immagine interna diventata orribile, avvizzita anche se l’esteriorità appare ancora giovane e prestante. 
 

Nel deserto della modernità cristiana e illuminista, è stupefacente ritrovare nella storia l’immagine aggraziata, seducente e desiderabile della fanciulla persiana, capace, con la sola forza della sua esistenza, di obbligare l’uomo ad essere pulito, a fare di lui il compagno, il complice, l’amante, non l’oppressore, non lo stupratore, non il compratore e nemmeno il censore moralista ottuso e violento dell’altra metà del cielo. Immagine antica che parla ancora, per chi la vuole ascoltare. 


febbraio 2011
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Un frase di notevole importanza ai fini della datazione di questo trattato (le ricadute storiche ipotizzabili sono descritte nel post "Pensieri persiani") è in un testo specifico titolato Hādōxt Nask 2, di  Andrea Piras, laddove dice: "...i tratti descrittivi e narrativi di daêna vengono esaltati mediante le titolature di Anāhitā (...) la cui venerazione era probabilmente estesa a tutta la comunità dei fedeli fin dall'epoca achemenide".

La frase ci dà due spunti: uno di ordine cronologico perchè trattando di 'epoca achemenide' parla del periodo dal VI al IV secolo a.C., il che non è poco quando si parla di una cultura quasi impossibile da datare con una qualche precisione, e poi perchè citando Anāhitā, la Madre Vergine Immacolata di Mitra, suggerisce il delicato punto di passaggio in cui la daêna, immagine interna femminile molto concreta benché già ipotizzata come ente dell'aldilà, potrebbe essersi definitivamente disincarnata, nel sincretismo con la Vergine Madre, per diventare urvan, puro spirito (cfr. il post "Pensieri persiani").




Esiste una diatriba circa l'esistenza o meno nella cultura islamica delle settantadue vergini. 
Riporto qui il parere di Sheikh Abdul Hadi Palazzi, guida dell'Istituto Culturale della Comunità Islamica Italiana:

"Secondo l'Islam - afferma Palazzi - vi sono settantadue mogli per ciascun credente che è ammesso in Paradiso. La prova è nel hadith trasmesso da at-Tirmidhi nella raccolta 'Sunan' (Vol. IV, capitoli su 'Le caratteristiche del Paradiso così come descritte dall'Inviato di Allah', Capitolo 21: "La ricompensa minima degli abitanti del Paradiso", hadith n. 2687)
La medesima tradizione è altresì citata da Ibn Kathir nel suo Tafsir (Commentario coranico) a Surah ar-Rahman (55), ayah 72, ed il suo significato è: "Ha riferito Daraj Ibn Abi Hatim che Abu al-Haytham Abdullah Ibn Wahb ha narrato da Abu Sa'id al-Khudhri, che ha sentito il Profeta Muhammad (su di lui la benedizione di Allah e la pace) dire: 'La minima ricompensa per gli abitanti del Paradiso è una dimora con  ottantamila servi e settantadue mogli..." (...) "Che le settantadue mogli siano vergini è provato dal ayah 74 della stessa Surah, il cui senso è, 'Né uomo, né jinn le ha mai toccate prima'."

In effetti nel Corano si dice "Vi saranno colà quelle dagli sguardi casti, mai toccate da uomini o da dèmoni" (Corano, Sura 55 'Il Misericordioso' - versetto 56) e più oltre "Quale dunque dei benefici del vostro Signore negherete? E [fanciulle] pie e belle. Quale dunque dei benefici del vostro Signore negherete? E fanciulle dai grandi occhi neri* ritirate nelle loro tende. Quale dunque dei benefici del vostro Signore negherete? Che nessun uomo o demone mai han toccato" (versetti 69-74).

*“Quelle bianche dai grandi occhi scuri”, questo è il significato del termine arabo “hurî”

marzo 2011

Note

1) trad. di E. Morano.

Bibliografia


Bausani A., Persia religiosa, pp. 65-72, Il Saggiatore, 1951.  
Gnoli G., La religione zoroastriana in Storia delle religioni, Vol. I, a cura di G. Filoramo, Ed. Laterza, 1994
Morano E., “Libero arbitrio e destino dell’uomo nella dottrina zoroastriana”, 
in A. Bongioanni - E. Comba (a cura di) “Libertà o Necessità ? L’idea di destino nelle culture umane”,
Torino 1998, Ananke, pp. 85-97. 
Pennacchietti F., Lo specchio dell’anima e il manto di luce nel testamento di Abramo 
in Semitic and Assyriological studies (a cura di Pelio Fronzaroli), p. 512.
Piras A., Hādōxt Nask 2, Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente, Roma, 2000.

Il Sacro Corano, Traduzione interpretativa in italiano a cura di Hamza Piccardo, revisione e controllo dottrinale Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia - UCOII  


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Relativamente alla figura della daêna si scoprono cose molto interessanti da una semplice ricerca su Wikipedia (http://it.wikipedia.org/wiki/Religione#Definizione) che qui riassumo:

Il termine "religione" nelle culture del Vicino e Medio Oriente

In lingua ebraica il termine occidentale "religione" viene traslitterato in caratteri latini come dath, che sta per "editto", "legge", "decreto". L'ebraico dath deriva dall'avestico e dall'antico persiano dāta.


Il termine avestico dāta possiede in quella lingua sempre il significato di "legge" o di "legge di Ahura Mazdā", ovvero legge del Dio unico e supremo dello Zoroastrismo.
 

In lingua araba il termine occidentale "religione" viene traslitterato in caratteri latini come dīn, che deriva dal medio persiano dēn che, a sua volta, deriva dall'avestico daēnā che in quella antica lingua significa "religione" intesa come splendore, luminosità di Ahura Mazdā. Daēnā a sua volta proviene, nella medesima lingua, dalla radice dāy (vedere). 

Anche se al termine dīn si attribuiscono tre diverse origini etimologiche (una ebraico-aramaica che ha il senso di 'giudizio', una più vicina a 'consuetudine' che deriverebbe da una radice araba che significa 'debito' e la terza che sarebbe la versione derivante dall'avestico di cui sopra.
In breve le culture del Vicino Oriente definiscono religione con termini derivanti sempre dall'avestico.  Nel caso dell'ebraico si lega più al significato di 'decreto legislativo', mentre nel caso dell'arabo il legame sembra essere con il termine daêna che, a sua volta, deriva da "vedere, essere visto" e all'immagine femminile che è corretto definire come 'immagine interna'.


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