08/09/10

Mito e ideologia: il 'peccato originale'

Una ricerca molto interessante è stimolata da alcune frasi che lo psichiatra Massimo Fagioli ha espresso sia sul numero 104 di Quaderni Radicali, criticando la presunta "naturalità" della violenza umana...


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...sia nei suoi scritti, in varie occasioni, l'ultima delle quali, nel momento in cui scrivo, sul settimanale left del 20 novembre 2009: "Fu distrutta l'immagine dello psichiatra e, con esso, la scienza medica che diceva che la malattia non è male originario dell'essere umano, ma ha un'eziopatogenesi, ovvero una causa, un agente che lede la 'naturale sanità' dell'essere umano. Ma, penso, non sono riusciti a fare una fantasia di sparizione verso l'idea del peccato originale, anche se hanno tentato di fare della 'pazzia' una malattia genetica".

L' idea di 'peccato originale', inteso come "naturale" malattia mentale, era già stata avanzata anche in un incontro con Marco Pannella su Radio Radicale (e poi pubblicato sulla rivista Il sogno della farfalla) dove lo psichiatra aveva appunto affermato "peccato originale vuol dire inconscio perverso".

Fagioli a Radio Radicale
L'ipotesi che nell'essere umano possa esistere una malattia mentale congenita, dovuta alla sua natura stessa, rende ovviamente impossibile, ma sarebbe meglio dire inconcepibile, qualsiasi idea di cura che non sia il mero contenimento di istanze "naturalmente" distruttive. Allo stesso tempo, e per lo stesso motivo, risulta improponibile qualsiasi possibilità di trasformazione che non sia nella direzione del consolidamento strutturale che tenga le dinamiche inconsce sotto stretto controllo.



Questa impostazione è, nello stesso tempo, cristiana e freudiana dal momento che "il bambino secondo Freud, sarebbe un 'polimorfo perverso'" (1). L'essere umano sarebbe cioè 'segnato' da una perversione naturale, concetto non dissimile da quello dello status naturae lapsae (2), ovvero 'decaduto', cristiano. La lettura cristiana non risulta essere più tanto critica, infatti, verso la teoria psicanalitica freudiana, ma sembra oggi valutarne positivamente gli aspetti fondamentali (3).
Fagioli al contrario ha elaborato la "teoria della nascita" che si fonda su un assunto diametralmente opposto: l'essere umano nasce sano, ma può poi ammalarsi nel corso dei successivi rapporti interumani. La primitiva sanità originaria, nel momento in cui non la si renda culturalmente inesistente, può quindi essere ricercata e ricreata nell'ambito di altri rapporti, questa volta positivi, cioè terapeutici.

Si fonda qui, quindi, la psicoterapia che 'nasce' realmente solo nel momento in cui scopre e afferma la vera dinamica della nascita degli esseri umani e l'origine della psiche dalla biologia umana che non prevede, ovviamente, alcuna "colpa" intrauterina.
Lasciando agli psichiatri i necessari approfondimenti su un tema che appare tanto complesso quanto affascinante, può essere interessante cercare di ricostruire le vicende di questo concetto di "colpa originaria", con un taglio di indagine storica per quanto molto sintetico, per individuarne l'andamento controverso nel corso dei secoli, a partire da miti che si perdono nella notte dei tempi.

I racconti di un'antica e perduta età dell'oro, in cui l'umanità viveva in perfetta armonia con se stessa e con la natura, senza dolori, né fatiche o angosce - in particolare senza l'angoscia della morte - sono rintracciabili in modo più o meno esplicito in molte culture. Sembra confermato dagli studi più recenti che per ben 140.000 anni l'umanità non si è spostata dall'area centro-orientale del continente africano; le ipotesi circa il sistema naturale del clima confermano che non ci sarebbe stato alcun motivo di spostarsi da quello che, per ambiente, temperatura, risorse idriche e alimentari, doveva essere effettivamente un paradiso terrestre.
Poi, con la prima glaciazione della storia umana la vita divenne estremamente dura. E' stato scritto che l'umanità si sia ridotta, in quei tempi, a poche migliaia di individui, qualcuno dice duemila in tutto, che sopravvissero a stento in un ambiente inospitale e desolato. Dopo migliaia di anni la situazione climatica migliorò e il conseguente sviluppo demografico permise alla specie di spuntarla, ma a prezzo di una vita sempre a rischio e a migrazioni massicce. Nell'arco di dieci-ventimila anni l'uomo raggiunse gli angoli più remoti della terra.
E cominciò a porsi domande sulla natura che lo circondava, su se stesso, sulla vita e sulla morte.


Alle origini della storia, nell' Enuma Elish, il poema mesopotamico della creazione, l'uomo è creato dal fango mescolato con il sangue di un dio minore sacrificato dagli dèi maggiori ed ha il compito di servirli e di lavorare per loro. E' schiavo di una volontà superiore, un mortale costretto a soffrire e sudare per la sopravvivenza. 

 Cilindro di Gilgamesh e Enkidu, da Ur III

Gilgamesh, nell'omonima epopea, cerca presso il vecchio Utnapishtim, il Noè mesopotamico, il segreto dell'immortalità racchiuso in una pianta che vive in fondo al mare. Ma, dopo averla trovata, ecco che gli viene sottratta da un serpente e l'eroe deve rassegnarsi a malincuore alla sua condizione mortale: "Gilgamesh dove ti affretti ? Non troverai mai la vita che cerchi. Quando gli dèi crearono l'uomo gli diedero in fato la morte, ma la vita, quella, la tennero per sè" (4).

In un mito sumero troviamo il giovane Adapa, che, in uno scatto d’ira, aveva spezzato un’ala a Shutu, dea del Vento del Sud che gli aveva rovesciato la barca; convocato dagli dei, cade in un inganno e rifiuta il cibo e la bevanda della vita che gli avrebbero assicurato l’immortalità, perdendo così l’irripetibile occasione; e qui troviamo anche un suggerito (ma non condiviso da tutti gli specialisti) nesso etimologico tra ‘Adapa’ e ‘Adamo’. 
In alcune culture dell’estremo oriente (nell’induismo upanishadico o nelle forme meno antiche del buddismo) si è formata la credenza nella reincarnazione ciclica in stadi successivi, che presuppone una qualche essenza immortale nell’uomo. In Egitto l’idea dell’esistenza di un’anima eterna è antichissima. Anche nella Grecia antica, ma la datazione è molto difficile - forse precedente il VI sec. a.C. - il pensiero orfico aveva elaborato la concezione che il corpo fosse peccaminoso di natura, in quanto nato - almeno secondo alcune interpretazioni - dalle ceneri dei Titani fulminati da Zeus: il corpo (soma) diventa tomba (sema) dell'anima.

Se la morte è vissuta spesso come un’ingiustizia, un furto o un inganno degli dei, se l’immortalità è ricordata come una possibilità perduta, in fondo si potrebbe pensare che si tratti della dolorosa presa di coscienza della realtà umana, della sua materialità a termine, filosoficamente ‘finita’, da contrapporre appunto alle divinità immaginate come eterne, quindi infinite. Perdere l’onnipotenza di essere eterni e infiniti potrebbe essere la causa dello scoramento di Gilgamesh, ma non c’è in tutto ciò alcuna idea di colpa. La morte non sembra essere una punizione dovuta ad una trasgressione. Almeno fino al caso del dio Enki.

E’ nella mitologia sumera - parliamo quindi di due-tre millenni a. C. circa - la prima traccia del racconto che fu più tardi conosciuto come 'peccato originale': “Come è noto il paradiso terrestre (…) si trova nella letteratura sumera (…) da un poema che tratta il mito di Enki e Ninhursag (…) sappiamo che in un remoto paradiso (…) il ‘paese dei vivi’ non cioè degli uomini mortali, le dee nascono senza dolore; ma Enki mangia le otto piante fatte spuntare da Ninhursag, la grande dea madre che lo maledice, lo vota alla morte e scompare. Lì una parte del corpo di Enki, ferito, è la costola e la dea creata per guarire la costola è Nin-ti (la signora della costola e la signora che fa vivere perché ‘ti’ significa in sumero “costola” e “vita”): di questo gioco di parole nulla rimane, è ovvio, nel racconto biblico… (5). Così il grande filologo Giovanni Semerano descrive una delle più antiche tracce storiche del mito; il giovane Enki è votato alla morte per la sua trasgressione, l’aver mangiato piante proibite. Perderebbe cioè, per una sua colpa volontaria, l’immortalità di essere divino, ma la dea Nin-ti, una delle molte immagini femminili della cultura sumera, viene creata - dopo il misterioso ripensamento della dea-madre - per curare la sua costola ferita. C'è il divieto, esiste la colpa, manca ancora l'attuazione della punizione. A Enki, il trasgressore, colpevole, condannato e infine perdonato, è fatto dono della vita ed è la donna che si occupa di ridare la vita all’uomo: Nin-ti, la signora della costola, la signora che fa vivere. 

Quando il mito fu accolto dall’ebraismo arcaico, dopo non sappiamo quali e quanti giri, quali e quante manipolazioni nell'area mesopotamica nel corso dei secoli, il gioco di parole era stato evidentemente perduto, ma era rimasta l’idea che ‘costola’ e ‘vita’ fossero in qualche modo connesse (e da allora migliaia di pagine furono scritte per cercare di spiegare, inutilmente, perchè mai il Signore Dio avesse creato la donna proprio dalla costola dell’ uomo).



Cilindro detto di "Adamo ed Eva" XXII sec. a.C. British Museum



Fatto sta che nella versione biblica di questo mito, nel secondo capitolo della Genesi, complice forse la differenza linguistica (il sumero non è lingua del ceppo semitico) e con l’evidente volontà di affermare una cultura androcentrica, la situazione si è rovesciata; non è più la donna che dà la vita all'uomo, ma il contrario, interrompendo così per sempre non solo la continuità terra-vita-parto-donna tipica delle culture arcaiche su cui si fondava il ‘culto’ della Grande Dea, ma anche quel rapporto di sostanziale parità tra uomo e donna, simboleggiato dalla coesistenza di immagini maschili accanto a immagini femminili, di cui si hanno tracce nelle culture del vicino oriente del III-II millennio a.C. 

Ora, all’alba del X secolo a.C., è la donna che nasce dalla costola dell’uomo o, come dirà Paolo di Tarso mille anni dopo “non è l’uomo che deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo”, affermando una scala gerarchica di valori durata altri duemila anni. 
L’uomo dà la vita alla donna attraverso la propria costola, ma è lei che poi cede alla tentazione e conduce l’umanità alla rovina avendo dato ascolto al serpente, immagine cananea di un dio della fertilità; è molto probabile quindi che questo racconto rappresenti un momento di scontro interno alla cultura arcaica dell’ebraismo, contro una forma di sincretismo esistente tra le religioni israelita e cananea; basti pensare che ancora poco prima dell’esilio babilonese nel Tempio di Gerusalemme, il culto del dio ebraico Jahwè era accompagnato da quello della dea Asherà, a volte detta anche Anat. Alcune iscrizioni trovate nel Sinai “riportano delle benedizioni a Jahwè e alla sua Asherà. Nonostante il successivo monoteismo, questo testo del IX o VIII secolo sembra indicare che il dio degli ebrei aveva una consorte cananea(6)
Ancora nelle Lettere di Elefantina, corrispondenza fra la comunità ebraica di Elefantina in Egitto e la madrepatria, si menzionano Jahwè e Anatyahu (cioè 'Anat di Jawhè') da cui “dobbiamo dedurre che ancora nel V secolo questi coloni (ebrei) non trovavano nulla di strano a parlare di divinità diverse da quella di Jawhè, compresa una dea…(7)


Gli studiosi che hanno affrontato in termini di critica storica il testo biblico, adottando quella che è stata chiamata “ipotesi documentale”, fanno risalire al X sec. a.C. (8) l’elaborazione del mito di Adamo ed Eva, attribuendolo alla fonte “Jahwista” così chiamata perché il nome del dio qui utilizzato è, appunto, Jahwè.
Come sappiamo però il racconto Jahwista costituisce il secondo capitolo della Genesi (9) ed è preceduto da un primo capitolo in cui la creazione degli esseri umani si sgancia totalmente dall’antico mito sumerico ed anche dalla concettualizzazione dell’ebraismo arcaico, per raccontare un’altra storia: “Dio creò l'uomo (ha-adam) a sua immagine; a immagine di Dio lo creò (10); maschio e femmina li creò” recita il primo capitolo della Genesi. Poi: “… li benedisse e disse loro: siate fecondi e moltiplicatevi” e: “Ecco, io vi do ogni erba (…) e ogni albero in cui è il frutto (…) saranno il vostro cibo (…)”. Infine si riposò.
La storia della creazione sembrerebbe finita qui, ma subito dopo il racconto ricomincia da capo, come se finora si fosse parlato d’altro, con il testo Jahwista del secondo capitolo, cioè con la storia del paradiso terrestre, di Adamo, della costola, di Eva, del serpente, della tentazione, della trasgressione, della cacciata e così via.
 

E’ evidente, nel primo capitolo, un’interpolazione nel racconto biblico di un tema diverso e nuovo perché la datazione di questo brano comunemente accettata è al VI sec. a.C., quindi decisamente più tarda. Anche la fonte è diversa; qui si parla di fonte “Sacerdotale” cioè di quella élite teocratica che prese il potere in Israele al momento del ritorno dall’esilio babilonese.
Balza agli occhi che questa “nuova” versione della creazione non contiene alcun elemento di continuità con la tradizione precedente, anzi sembra abbastanza evidente una ‘rottura’ ideologica: non esiste un paradiso terrestre né una presunta immortalità degli esseri umani, prima di tutto. Poi non esiste alcun frutto proibito, al contrario “ogni albero in cui è il frutto” è cibo per loro; di conseguenza non esiste tentazione, serpente, trasgressione, colpa e punizione. Non esiste il peccato originale. Ma, se torniamo indietro di qualche frase, ci accorgiamo che non esiste nemmeno la costola di Adamo. Dio creò “ha-adam”, cioè l’umanità (adam significava ‘umanità’ già in ugaritico) a sua immagine e somiglianza; nell’umanità c’è l’immagine divina, cioè quel quid considerato l’elemento che distingueva gli esseri umani dagli altri esseri animati; in seconda battuta si specifica la distinzione in ‘uomo e donna’. Infine Dio li benedisse e li invitò - “andate e moltiplicatevi” - che nella cultura ebraica posteriore ha sempre avuto il significato di non disprezzare la materialità del corpo, in quanto dono di Dio, piacere sessuale compreso. 


L’uomo e la donna vengono immaginati creati insieme, con lo stesso atto, dalla stessa materia ed è nell’unione dei due che è rintracciabile l’immagine divina. Non c’è gerarchia o derivazione dell’una dall’altro. Appare una contraddizione fra i due capitoli di Genesi che susciterà poi nell’ebraismo rabbinico (in particolare nei primi secoli d. C. quando la dialettica con i cristiani si andrà intensificando) la domanda su chi fosse mai la ‘prima Eva’; al mito della prima donna ho dedicato un post specifico, titolato appunto "Lilith: la prima Eva".

Se andiamo avanti nella lettura biblica possiamo inoltre individuare un’ulteriore divergenza non trascurabile anche tra il quarto capitolo della Genesi (di fonte Jahwista) dove si parla di Caino e Abele  - tema anch’esso derivato dalla mitologia sumera (cultura complessivamente meno cruenta di quella semitica) dei litigiosi, ma poi riconciliati, fratelli Emesh ed Enten – ed il quinto capitolo di fonte Sacerdotale che si riallaccia direttamente al primo: qui di Caino e Abele non c’è più traccia e Adamo genera Set che, da come è sviluppato il racconto , sembrerebbe essere il suo primogenito: "Questo è il libro della genealogia di Adamo. Quando Dio creò l'uomo, lo fece a somiglianza di Dio; maschio e femmina li creò, li benedisse e li chiamò uomini quando furono creati. Adamo aveva centotrenta anni quando generò a sua immagine, a sua somiglianza, un figlio e lo chiamò Set. Dopo aver generato Set, Adamo visse ancora ottocento anni e generò figli e figlie. L'intera vita di Adamo fu di novecentotrenta anni; poi morì".

La questione appare complessa perché si intuisce un robusto conflitto ideologico fra il pensiero Jahwista e quello della casta Sacerdotale: dove - e quando - possiamo individuare il momento della rottura all’interno di un processo sempre in bilico tra correnti culturali parallele, ma discordanti ?


Al ritorno dall’esilio babilonese, nel 539 a.C., la società ebraica andò incontro ad uno scontro sociale e culturale, teologico e politico estremamente duro fra i ‘rimasti’ in Palestina, genericamente il popolino, e i ‘ritornati’ dall’esilio, le élite sociali e politiche, che tentarono di riappropriarsi di beni e potere. Le due fazioni, rispettivamente rappresentate dai partigiani della casa e della stirpe di Re David e dalla casta aristocratica dei Sacerdoti Sadociti (11) portatrici sia di interessi che di ideologie diverse, si affrontarono in uno scontro culminato forse in una vera e propria guerra civile, al termine della quale la casa regnante uscì definitivamente di scena. I Sacerdoti, con la loro ideologia, assunsero il potere e, attraverso varie fasi e molti fatti travagliati, lo detennero fino al 170 a.C. circa, cedendolo poi, semplificando un po’ la storia del medio giudaismo, ai Farisei (12), che guidarono l’ebraismo fino alla distruzione del Secondo Tempio ad opera dei Romani (70 d.C.).


Sintetizzando una ricerca molto articolata, possiamo individuare nelle parole dell’ultimo dei tre profeti maggiori, Ezechiele, uomo vicino all’area Sacerdotale, l’emergere di un pensiero innovativo “Colui che ha peccato e non altri deve morire; il figlio non sconta l'iniquità del padre, né il padre l'iniquità del figlio. Al giusto sarà accreditata la sua giustizia e al malvagio la sua malvagità(13). Cioè un pensiero che rifiutava l’idea che la colpa potesse trasmettersi di generazione in generazione a prescindere dai comportamenti individuali, idea diffusa nella cultura precedente: “Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti(14)


E’ evidente una nuova mentalità ed è altrettanto evidente che la stesura del primo capitolo della Genesi, dove non c’è alcuna traccia di una colpa primigenia, risulta coerente con questa stessa nuova mentalità che, nel rifiutare l'idea di trasmissibilità della colpa, afferma il concetto di responsabilità individuale.


Non solo. Nell’opera di consolidamento della propria posizione e di rafforzamento del nuovo stato, prostrato da almeno due secoli di devastazioni, i Sacerdoti Sadociti si impegnarono nella composizione di un sistema di leggi fondate sulle “norme di purità”, che avevano lo scopo di regolamentare la vita sociale e civile all’interno di un sistema concettuale basato sulle categorie di sacro-profano/impuro-puro (15). Il contenzioso investì cioè anche l’idea di “impurità” che era centrale nella visione del mondo dell’antico ebraismo. Gli aspetti contraddittori di questo concetto vanno visti, almeno sommariamente, perchè esso andrà incontro a interpretazioni diverse e mutanti nel tempo, in funzione delle diverse ideologie che nel corso dei secoli andranno separandosi decisamente.


Fino dai tempi più antichi il mondo era visto dall’essere umano in due modi: ciò che era interpretabile con i cinque sensi e ciò che andava al di là di questa comprensione, ma che, pure, esisteva chiaramente in natura. Tutto ciò che aveva a che fare con il mondo fisico ed era definibile tramite l’esperienza sensoriale apparteneva al “profano”, mentre l’assoluto, l’incomprensibile, lo sconosciuto, tutto ciò che esisteva oltre la fisicità direttamente interpretabile era di pertinenza del “sacro”. Il sacro ed il profano, cui si legavano in diretta connessione i termini di impuro e di puro, costituivano la categoria interpretativa con cui l’antico ebreo stava al mondo.
La coppia sacro/profano delimitava gli ambiti in cui l’essere umano si muoveva, mentre quella impuro/puro definiva la condizione psicofisica in cui veniva a trovarsi, in conseguenza di questo suo muoversi in essi ambiti.
I quattro termini stavano in rapporto fra di loro in un modo che, via via, è mutato nel tempo, pur senza investire mai l’insieme del mondo ebraico, ma segnando “l’insorgere di nuove forze e tendenze (16).
Come forse è stato notato la coppia sacro/profano è stata scritta in modo da rapportarsi in parallelo a quella impuro/puro. Quasi certamente a chiunque sarebbe venuto immediato rovesciare i termini della seconda coppia perché il suono “sacro/profano” si lega spontaneamente, secondo la sensibilità attuale, a quello “puro/impuro”.
In altri termini oggi il sacro si connette direttamente al puro, così come il profano all’impuro.
Oggi. Ma non nel pensiero ebraico antico; è questo, in un certo senso, il ‘rovesciamento’ che si è verificato nel corso di secoli e che va evidenziato e spiegato perchè il senso originario è andato perduto e questa concettualizzazione è assolutamente fondamentale per la storia successiva, tanto che è stato affermato: “in un certo senso fare la storia dell’evoluzione di questa categoria è un po’ fare la storia del pensiero ebraico e, poi, della sua diversificazione da quello cristiano(17).  

Ma andiamo con ordine.

Nel sacro si vedeva soprattutto una forza di portata assolutamente terrificante e capace di uccidere - fisicamente, non metaforicamente - chiunque entrasse in contatto con esso o con gli oggetti di culto o con gli ambienti in cui l’assoluto si manifestava; “Il mondo era sacro, cioè pervaso da una forza terribile, sulla quale l’uomo non poteva assolutamente agire(18).
La natura e le sue manifestazioni più spaventose e incontrollabili erano sacre, come al sacro si rapportava tutto ciò che aveva a che fare con il ciclo della vita e della morte, in modo immediatamente percepibile. “…il Dio della Bibbia non è un prodotto del pensiero né sta alla fine di un lungo e travagliato processo speculativo (…) le sue manifestazioni sono talmente afferrabili che non abbisognano di prova; le sue manifestazioni di potenza sono leggibili nella natura…(19).
Sacro era tutto ciò che aveva a che fare con il non comprensibile, l’inspiegabile, l’ignoto in senso metafisico, sotto il controllo del divino e fuori dalla portata dell’uomo che poteva solo adorare e sacrificare a Dio sostanzialmente per placarlo. Già da questa sommaria descrizione si può notare il percorso che il termine “sacro” dovette fare nel corso dei secoli: qui troviamo il tremendum, cui avvicinarsi solo con estrema cautela e con la massima circospezione, ma la contemporanea attrazione esercitata dal mondo sacro svilupperà poi, più tardi, un’aspirazione profonda e colma di gioia estatica nel lasciarsi andare al fascinans del divino, fino a proporsi all’ unione totalizzante con esso che si troverà negli ambienti mistici di tutti e tre i monoteismi, anche se con modalità molto diverse. Si può evidenziare cioè un progressivo rovesciamento del comportamento umano nei riguardi del sacro.

Anche il termine “impuro” - il più significativo ai fini di questa ricerca - indicava qualcosa di pericoloso, come pericoloso era il sacro, ma con una differenza di tipo quantitativo: il sacro uccideva - “Certo morremo, perché abbiamo visto Dio (20) - mentre l’impuro indeboliva, depotenziava, metteva l’essere umano in una condizione di incapacità, più o meno grave, di affrontare i pericoli, fisicamente intesi. I soldati non potevano essere impuri (cioè indeboliti) prima di uno scontro, al contrario veniva loro imposto di abbandonare il campo; né il viaggiatore riteneva prudente partire in condizioni di impurità. Era quindi un elemento naturale, concretamente esistente, quasi un “fluido” esterno all’uomo, un influsso per lui pericoloso e quindi da evitare: “L’uno e l’altro (sacro e impuro) sono pericolosi per l’essere umano; l’uno e l’altro rivelano all’uomo l’esistenza di un mondo ignoto, incontrollato ed incontrollabile in quanto non percepibile con i cinque sensi a disposizione della ragione umana: è quel mondo di percezioni e sensazioni, dove si annidano il segreto del cosmo e la fonte della vita(21).

Che l’invisibile (delle cose e degli esseri viventi) potesse agire fisicamente sul corporeo delinea una cultura che stava ancora in bilico fra il pensiero religioso moderno in via di formazione e
il più antico pensiero animista (che ritroveremo in qualche modo poi, trasformato, nel pensiero magico). Permane cioè  l’idea di un influsso sulla realtà conosciuta di realtà non conosciute, ma legate al misterioso ciclo della vita e della morte, ritenuto oscuro, incomprensibile e, per ciò, sacro. 

Più misterioso il concetto di depotenziamento, di indebolimento fisico indotto dall’impurità; ci potrebbe aiutare, nel tentativo di comprendere, il mito di Gilgamesh dove compare la figura di Enkidu, uomo primitivo e selvaggio, che vive in simbiosi con gli animali fino a che la prostituta sacra mandata da Gilgamesh non lo seduce e lo trattiene in amplesso per sette giorni consecutivi. Alla fine Enkidu è ormai civilizzato ed è particolarmente significativa l’idea che l’unione con la donna permetta la “civilizzazione” dell’uomo selvaggio, sottraendolo al mondo animale; troviamo cioè un nesso con una visione della sessualità come atto sacro, ma anche l’idea che il maschio, dopo essere stato 'umanizzato' dalla donna, non ha più le forze per correre di nuovo con gli animali. L’idea di depotenziamento indotto dall’impurità trova qui una possibile conferma o quantomeno un indizio di quale poteva essere la mentalità non solo del mondo ebraico arcaico, ma anche di altre culture mesopotamiche: il ‘sacro’ conferisce più umanità, cioè toglie animalità, ma questa trasformazione indebolisce. L’acquisizione di una maggiore umanità sarebbe pagata con una minore forza fisica, forza sentita evidentemente come più affine all’animalità.

L’impuro faceva parte della natura
, come elemento a se stante (ad esempio gli animali considerati impuri), ma era anche uno status transitorio delle cose e degli uomini che erano stati contaminati per contatto. Ma contaminati da cosa ?
La partoriente non commetteva evidentemente alcunché di peccaminoso nel partorire, ma con il parto diventava impura, così come impura era la donna mestruata o chiunque avesse avuto un rapporto sessuale. Il parto, come il sangue, come il sesso e come tutto ciò che si connetteva al misterioso ciclo della vita e della morte erano sacri e rendevano impuri, cioè contaminati dalla loro stessa sacralità. Da qui la necessità di decontaminarsi.
In effetti non si tratta di togliere lo sporco, ma di ‘neutralizzare’ il sacro in modo che non venga in contatto con ciò che può essere definito il profano (…) Nei riti ebraici ciò che veniva a contatto con il sacrificio diventava ‘impuro’, ossia contraeva parte della sacralità del sacrificio e per riportare l’oggetto all’uso normale era necessario ‘desacralizzare l’oggetto’, ossia purificarlo dal sacro
(22).
 

Per fare un ulteriore esempio, sappiamo che alla fine del I sec. d.C. si volle dire una parola definitiva sul Canone ebraico e che si svolse un dibattito finalizzato a stabilire la canonicità di due testi, Qohelet ed Ester; la decisione finale fu che essi erano libri “che sporcano le mani”, cioè “ispirati da Dio”, da non maneggiare alla leggera e che richiedevano una purificazione delle mani, dopo averli toccati. L’oggetto o la persona ‘contraeva’ parte della sacralità con cui era venuto in contatto e, diventata così ‘impura’, doveva essere purificata, purificata dal sacro, cioè desacralizzata. Ecco quindi il nesso tra sacralità e impurità (e sessualità).

La persona impura, a sua volta, avrebbe potuto poi contaminare altri per contatto, altri che ne sarebbero stati indeboliti, ma non c’era in ciò - elemento particolarmente significativo - alcun tipo di giudizio morale. Ciò che si rendeva necessario era ripristinare la separazione fra i due ambiti, sacro e profano, con un rito di purificazione atto ad eliminare il depotenziamento indotto dall’impurità.

Ma l’impurità, affine al sacro, in quanto depotenziante, non permetteva all’essere umano di rapportarsi al sacro stesso: il pericolo dell’annientamento era gravissimo per chi non fosse assolutamente puro (cioè nel pieno della sua potenza); per questo motivo il Sacerdote, maggiormente esposto alla sacralità del divino, aveva bisogno del massimo grado di purità. In mancanza di questa assoluta purità non poteva avvicinarsi al divino. Doveva quindi cambiarsi d’abito nell’avvicinarsi al tabernacolo per non rischiare di essere impuro, ma, poi, doveva cambiarsi d’abito di nuovo, nell’uscire, per non contaminare il popolo con la sacralità del tabernacolo stesso.
 

L’impuro finiva così con l’avere, quasi inavvertitamente, una qualche valenza negativa, un minus, anche se, ancora, senza particolari connotati etici. Va evidenziato cioè che esistevano, già dall’antichità, elementi contraddittori che apriranno poi la strada a una diversa interpretazione del termine; si andarono delineando due pensieri opposti, l’uno tendente a mantenere eticamente neutro il concetto di impurità, l’altro più propenso ad inserirvi un elemento negativo, contenente un embrione di giudizio morale, in cui l’impurità era interpretata come conseguenza di una precedente trasgressione. Cioè derivante da una colpa, un qualcosa di assimilabile a un peccato. Perciò “…se il peccato contamina, cioè produce un’impurità nell’uomo (essa impurità) non è più un fatto fisico da affrontarsi con le dovute cautele. E’ qualcosa che è intimamente nemico di Dio”. E “se l’impurità poteva essere una pena, ciò significa che era considerata un male, sia pure fisico, che nella storia si connaturava con un essere malvagio(23).
 

E’ contro questa impostazione, di tendenze forti benchè minoritarie del mondo giudaico, che prese forma il rifiuto dell’ambiente Sacerdotale per il quale “l’impurità è manifestamente concepita come pura forza della natura assolutamente indipendente dall’idea di male, inteso come trasgressione o, come diremmo oggi, come male in senso morale(24).
Si può collocare lo scontro fra le due tendenze riguardanti il tema dell’ impurità (eticamente neutra/eticamente significativa) tra il VIII ed il VI secolo a.C.; resta difficile determinare quale delle due fosse stata elaborata per prima e quale ne fosse invece la risposta, ma a giudicare dalla datazioni comunemente accettate l’ideologia Sacerdotale fu probabilmente una risposta. E’ chiaro che parliamo dello stesso conflitto ideologico di cui i primi due capitoli della Genesi fanno parte.

Torniamo a Ezechiele e a quello che, ancora, affermò nel VI secolo a.C.: “(i Sacerdoti) insegneranno al mio popolo a distinguere fra sacro e profano, fra impuro e puro gli insegneranno a distinguere
(25)
Frase che si trova anche nel libro del Levitico, in un passo attribuito alla fonte Sacerdotale: “Questo perchè possiate distinguere il sacro dal profano e l’impuro dal puro”. Elaborazione più teorica (e mistica) in Ezechiele, più pratica nel Levitico, ma, in ogni caso, idea di separazione netta che resterà uno dei capisaldi del pensiero ebraico posteriore della tradizione sacerdotale. L’insieme delle “norme di purità” contenute nel Levitico - il libro della Legge, sicuramente il più noioso dei cinque testi biblici – si caratterizza per regolamentare con estremo scrupolo la vita ebraica. 

Il pensiero teorico di Ezechiele ci presenta dei contenuti di difficile interpretazione, ma che potrebbe essere interessante valutare più approfonditamente, mentre le norme sacerdotali sembrano essere la regolamentazione del comportamento che l’ebreo doveva tenere per evitare l’impurità. Era la codificazione della mentalità che assumeva il puro e l’impuro come categorie del modo ebraico di essere al mondo. Categorie che ai pagani del tempo risultavano incomprensibili e che lo sono in buona misura anche per noi moderni. Le norme di purità erano cioè la codificazione razionale di un modo d’essere che tanto razionale non sembra. 

Questa è la Legge ebraica ed in essa diventa chiaro che esistono impurità lecite (ad esempio il parto o il sesso) che fanno parte della vita ed altre illecite (come mangiare carne di animali impuri o non dissanguati) che vanno evitate. L’impurità rituale ‘lecita’ non comporta disvalore morale, l’impurità ‘illecita’ diventa trasgressione.
Dio e l’uomo si trovavano ai poli opposti di un cosmo, in cui ciascuno era libero nella sua sfera. In questo senso la Legge è strumento di libertà, perchè serve a indicare all’uomo i limiti al di qua dei quali egli deve trattenersi per esercitare la propria creatività
(26)

Il libero arbitrio dell’essere umano diventa così strutturale nel pensiero ebraico, ma nei limiti a lui riservati e regolamentati, limiti che forse rappresentano proprio lo schema del vivere in un ambito circoscritto alla coscienza morale; anche se si può aggiungere che proprio la riflessione sul libro di Ezechiele e sul primo capitolo della Genesi è all’origine del misticismo ebraico, in cui la visione schematica della legge tendeva ad essere superata (o quantomeno affiancata) da un qualcosa che andava ben al di là del visibile e del tangibile.
In ogni modo vediamo qui, in questo concetto di responsabilità individuale, il pensiero che sarà sempre maggioritario nell’ebraismo precristiano, in cui si rifiuta  qualsiasi ipotesi di trasmissibilità della colpa.

Riprendiamo il corso degli eventi: al ritorno dall’esilio babilonese nel 539 a.C., l’ambiente Sacerdotale prese il potere dopo una guerra civile che vide uscire definitivamente di scena la casa regnante di stirpe davidica, e, con essa, le tendenze vicine culturalmente alla fonte Jahwista.
I sacerdoti, chiamati “sadociti” (cioè discendenti di Sadoq, Gran Sacerdote ai tempi di re Salomone) misero mano alla stesura della prima versione della Bibbia ebraica, raccogliendo precedenti tradizioni orali e scritte e aggiungendovi quanto da loro elaborato; si impegnarono così a ri-fondare l’ebraismo come stato-nazione, sotto l’attenta supervisione persiana, dopo la catastrofe della deportazione. Disastro avvenuto poco più di un secolo dopo l’altra tragedia causata dall’ occupazione assira durante la quale le ‘dieci tribù’ dell’ Israele settentrionale erano andate “perdute”, cioè assorbite da popolazioni etnicamente e culturalmente non ebraiche.
 

Per non rischiare l’estinzione della nazione, le nuove classi dirigenti imposero un irrigidimento sulla ‘purezza’ etnica, che trovò corrispondenza teologica nell’affermazione più radicale del Dio unico (fino a lì non così unico, se, come abbiamo visto, ancora nel V secolo si inneggiava a Jahwè e alla “sua” Asherà o Anat) e nel concetto di “popolo eletto”, cioè ‘scelto’ per indicare la via della salvezza universale con il suo comportamento; concetto funzionale ad identificare (cioè a separare con determinazione) gli ebrei dagli altri popoli e concetto perfettamente conseguente con quello di separare sacro da profano e impuro da puro. Ideologia, teologia e finalità socio-politiche del sacerdozio sadocita in assoluta coerenza e portate a compimento alla fine del V sec. a.C.

Ma contro la classe Sacerdotale e la sua ideologia vincente si andò coagulando una nuova corrente teologico-politica, che con la corrente maggioritaria condivideva lingua, appartenenza etnica, fede nel dio unico, ma poco altro. L’ambiente Sacerdotale, sconfitte le istanze Jahwiste, si trovò a fronteggiare una nuova forma del pensiero giudaico.
Questa corrente è stata chiamata ‘enochica’ perché invece di fare riferimento al Pentateuco di Mosè, si riferiva al “Libro di Enoch”, anch’esso composto in cinque libri, il cui patriarca di riferimento era appunto Enoch, non Mosè. Né riconoscevano la legge mosaica che ritenevano inferiore alle loro “Tavole Celesti”.
 

Studi relativamente recenti, dovuti alla pubblicazione di alcuni manoscritti del Mar Morto, hanno convinto gli specialisti a retrodatare la stesura della parte più antica del Libro di Enoch (il Libro dei Vigilanti) di alcuni secoli, addirittura al V sec. a.C., mentre fino a poco tempo fa la si datava attorno al II secolo e la si inquadrava nell’ambito ampio ed articolato delle varie correnti apocalittiche del tardo giudaismo. Questo fa ritenere che l’origine della cultura enochica fosse prossima, se non addirittura contemporanea, a quella sacerdotale e ne modifica l’interpretazione storica. La frattura in seno alla società ebraica fu estremamente importante per le conseguenze che ebbe sia sul mondo ebraico che su tutta la cultura posteriore; basti pensare che l’enochismo portò nel giudaismo la credenza nell’anima immortale, di origine forse egizia o più probabilmente iranica, che i sacerdoti tradizionalisti si rifiutarono sempre di accettare. Dobbiamo tenere presente, cioè, che “l’enochismo fonda la religiosità moderna, visibile soprattutto nella derivazione cristiana(27).

L’ideologia di quella che era una vera e propria corrente culturale parallela e avversa all’ebraismo sacerdotale, si fondava su una mitologia decisamente diversa da quella biblica, con la quale trovava una connessione solo nel racconto di Noè e del diluvio, che era ben conosciuto nell’area mesopotamica fino da tempi antichissimi.
Nella parte più antica del testo enochico - il Libro dei Vigilanti -  si racconta in qual modo il male si era diffuso nel mondo: il problema era stato causato dagli Angeli “Vigilanti” che, sedotti dalla bellezza delle donne mortali, erano scesi sulla terra per accoppiarsi con loro e procreare figli, definiti “giganti alti tremila cubiti”. 


Questa innaturale commistione tra cielo e terra, tra esseri spirituali e donne mortali aveva causato la contaminazione di tutto il creato, un’impurità intesa come peccaminosità dovuta ad una trasgressione dell’ordine cosmico: “Perché avete lasciato il cielo eccelso e santo e vi siete coricati con le figlie degli uomini? (...) Voi, esseri spirituali, santi, viventi la vita eterna, avete commesso impurità sulle donne  (...) avete fatto come fanno gli uomini, che sono sangue e carne, che sono mortali e distruttibili. Per questo Io detti loro le donne…
(28).
 

Gli angeli avevano fatto come gli uomini di “sangue e carne” (semitismo per indicare gli esseri umani) che sono mortali. “Per questo” le donne erano state create, per la procreazione necessaria agli esseri mortali. E’ evidente che ci troviamo di fronte ad un’ideologia che concepiva la donna unicamente come “fattrice”. Ai mortali la donna ‘serve’ per il perpetuarsi della specie; agli immortali, agli esseri spirituali evidentemente non ‘serviva’ e unirsi a lei poteva essere immaginato come un abbassarsi ad un livello inferiore.

Il concetto di impurità nell’enochismo è così interpretato come derivante da una ‘trasgressione colpevole’, mentre nella corrente ortodossa l’impurità era, come abbiamo visto, una forza naturale autonoma. Si intuisce come l’impurità scivola verso una dimensione “interna” all’essere umano, mentre rimane dimensione “esterna” nella concezione degli ambiti sacerdotali.
Torna il contrasto ideologico attorno al concetto di impurità; qui il pensiero enochico sembra convergere verso alcuni tratti  della tradizione Jahwista.  La diffusione dell’impurità nel mondo, intesa come peccaminosità causata da una trasgressione, e poi dalla malvagità dei giganti figli della colpa, aveva causato - secondo la mitologia enochica - la punizione devastante del diluvio. Di questo racconto rimane solo una traccia, manipolata dall’estensore biblico di scuola sacerdotale fino a renderla incomprensibile, nel sesto capitolo della Genesi, dove i giganti, figli della trasgressione, diventano “eroi dell’antichità, uomini famosi” che però poi furono sterminati lo stesso - e non si capisce più perchè - con il diluvio.

Nel racconto enochico fa capolino anche una certa qual malizia delle donne che a fronte della loro capacità procreativa ottennero qualcosa in cambio dagli Angeli Vigilanti che “insegnarono ad esse incantesimi e magie e mostrarono loro il taglio di piante e radici
(29). Procreazione in cambio di conoscenza. Alterazione mitologizzata della trasformazione della società ebraica da nomade a sedentaria, in cui le donne avevano acquisito un ruolo sociale più significativo ?  

Un altro elemento importante è che in tutta la mitologia enochica non c’è traccia del mito di Adamo ed Eva; da questa assenza si deduce che ”…l’omissione del racconto del peccato dell’Eden sia volontaria e risponda ad una teologia che voleva far risalire chiaramente a un essere di natura angelica l’origine del peccato
(30). Ma certo esistono molti elementi che rimandano ad un pensiero assimilabile a quello Jahwista: l’‘angelo caduto’ che sa di diabolico, la sapienza ottenuta - fatta di “incantesimi e magie, di taglio di piante e radici” - che (oltre ad un primitivo accenno di stregoneria), richiama l’albero della conoscenza, la punizione degli angeli, ma poi anche delle donne stesse, la cui bellezza seduttiva le fa colpevoli e punite quindi, assieme agli angeli caduti, in un rieccheggiare di temi che non erano, alla fine, così lontani dalla mentalità Jahwista.
Gli studiosi ipotizzano che alcuni paragrafi del libro di Enoch siano riconducibili ad un precedente ‘Libro di Noè’, oggi perduto, che potremmo immaginare forse come un momento di raccordo e di continuità fra il racconto Jahwista e quello enochico o, addirittura, fra il mondo mesopotamico e quello dell’ebraismo arcaico.

Nell’enochismo si affermava che il male si era diffuso nel mondo a causa di un rapporto tra esseri spirituali e donne mortali di tipo trasgressivo, quindi peccaminoso. Nella tradizione sacerdotale, espressa nel primo capitolo della Genesi, si sosteneva invece, accanto all’idea di una creazione ‘paritaria’ di uomo e donna, l’assoluta inesistenza di una qualsiasi forma di ‘colpa’ o di peccaminosità originaria. In un caso la donna è vista come un essere che trascina nel peccato, nell’altro ha pari dignità di ‘nascita’ con l’uomo e non porta alcun male.
Si intuisce quindi una serrata dialettica fra i due testi, un contrasto in cui l’uno sembra rispondere all’altro, segno di uno scontro culturale in cui, anche se non mi sembra che sia mai stata sufficientemente evidenziata, l’interpretazione del femminile, del rapporto uomo-donna e del concetto di “impurità” (che molto ha a che fare con la sessualità) appare centrale, se non addirittura dirimente.

La corrente enochica si svilupperà poi, o si ramificherà, nell’essenismo in cui il tema della colpa degli Angeli Vigilanti andrà a sparire, ma in cui l’idea che il sesso fosse di per sé peccaminoso metterà radici, ancora in contrasto con gli assunti della tradizione sacerdotale. L’antica colpa degli angeli che avevano trasgredito l’ordine cosmico diventa la colpa di chiunque ceda alla fornicazione, perchè essa è ritenuta causa della massima impurità; il sesso è concepito come il mezzo attraverso il quale la colpa investe il mondo. 


Fino ad arrivare alla Comunità di Qumran (II sec. a.C.), cui appartengono i famosi manoscritti del Mar Morto, dove si supera anche l’idea essenica di una ‘colpa’ insita nell’unione carnale. Si forma un predeterminismo in cui l’angelo caduto non è tale per aver trasgredito, come nell’enochismo, ma è stato creato così all’inizio dei tempi.
Non c’è più bisogno della trasgressione; il Male è pensato come creato da Dio stesso, contemporaneamente al Bene. Non è più necessario commettere qualcosa per creare impurità, per essere colpevoli non è necessario fornicare anche se questo conferma l’essenza peccaminosa dell’uomo. Qui si arriva all’estrema sintesi: l’uomo è colpevole perchè tale è la sua natura.

 
Quale creatura d'argilla può fare miracoli?
Fin dall'utero è nel peccato
e fino alla vecchiaia nella colpevole iniquità (31)

Eccoci finalmente al punto. Il Male non deriva da una trasgressione da cui l’uomo si può difendere - ad esempio - non trasgredendo, cioè rispettando le norme di purità, oppure pentendosi o, ancora, attraverso il rito di purificazione. Qui l’uomo non può fare proprio niente, ancora prima di nascere è già colpevole e tale rimane fino alla vecchiaia; nessuna trasformazione è possibile. D'altra parte il ragionamento appare molto conseguente: l'istinto sessuale è visto come connaturato all'essere umano; se la sessualità viene considerata peccaminosa è ovvio che, prima o poi, anche il peccato in sé sarà considerato come connaturato all'essenza umana. 

In conclusione, l’impurità ormai diventata Male non è più forza esterna della natura, ma caratteristica intrinseca dell’essere umano. Siamo ormai prossimi all’ideologia cristiana.

Le due strade dell’“apocalittica” (termine con cui - più o meno correttamente – si è soliti comprendere enochismo, essenismo, qumranesimo etc.) e della fonte Jahwista, alla fine di un percorso divergente, fatto di elaborazioni mitiche diverse e non comunicanti, giungono, a secoli di distanza, alla stessa conclusione: l’origine peccaminosa dell’umanità. L’uomo è colpevole ‘fin dall’utero’ oppure – il che è lo stesso – commette una colpa mentre è dentro il paradiso terrestre, dove non esiste la morte, quindi la finitudine del tempo. Circonlocuzione per dire “dentro l’utero” perchè con la cacciata si perde l’immortalità, cioè ha inizio la vita e l’orologio, implacabile, inizia a ticchettare.

Saremmo quindi pronti a veder riemergere dalle nebbie del passato il mito di Adamo e di Eva in tutta la sua esemplare sinteticità, ma ancora non è il momento. Ancora siamo lontani dalla fine della nostra ricerca perchè sia nelle varie correnti minoritarie apocalittiche, sia nell’ebraismo maggioritario della tradizione sacerdotale, il tema della caduta di Adamo era ancora irrilevante: “…il peccato originale non ha alcun ruolo nelle scritture ebraiche al di fuori di Genesi 2-3. Solo in opere tarde e rimaste al di fuori del canone ebraico il peccato di Adamo ha la funzione ‘fondante’ che avrà poi in Paolo di Tarso
(32)

Andiamo dunque a vedere quali erano queste “opere tarde”, ma per farlo dobbiamo introdurre un’altra tendenza ideologica che fu un bel po’ dirompente per il mondo ebraico: quella ellenistica. Le "opere tarde e rimaste fuori del canone ebraico” fanno infatti riferimento a quelle correnti del giudaismo che furono fortemente influenzate dalla cultura greca, arrivata in medio oriente attorno al 334 a.C., sulla punta delle lance macedoni, e che seguirono un loro particolare percorso.


Al racconto Jahwista del secondo capitolo della Genesi si erano riferiti solo alcuni brevi passaggi di testi appartenenti a quest’area culturale: il primo, Siracide o Sapienza di Sirach, del 180 a.C., è l’unico testo ebraico antico di cui si conosce l’autore - Yeoshua figlio di Sirach - in cui possiamo leggere “…dalla donna ha avuto inizio il peccato, per causa sua noi moriamo” (Sir. 25, 24).
 

Un altro testo, in greco, è detto Sapienza o Sapienza di Salomone, del 50 a.C.: “Sì, Dio ha creato l'uomo per l'immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sap. 2, 23-24). Due brevi passaggi che dimostrano però un certo rifiorire di interesse verso il tema della “caduta” nel peccato in questo ambito culturale. Entrambi furono rifiutati dal canone ebraico, ma accolti - non a caso - in quello cristiano.

Oltre ai riferimenti al mito della caduta di Adamo ed Eva (ma qui ancora manca una connessione diretta fra ‘primo peccato’ e ‘decadenza’ dell’essere umano, si parla solo di perdita dell’immortalità) la cultura giudaico-ellenistica era contrassegnata da una drammatica ed esasperata misoginia che costituiva l’ideale collante tra questo ambito culturale e quello dell’apocalittica, per altri versi inconciliabili. 


Se nell’enochismo si incolpava indirettamente la donna di aver provocato, tramite la seduzione, la caduta degli angeli, il Siracide è decisamente più diretto: “ogni donna fornicatrice sarà calpestata come sterco nella via” (Sir. 9, 10). Appena meno pesante nei confronti del femminile il testo di Sapienza “Beata la sterile non contaminata, la quale non ha conosciuto un letto peccaminoso; avrà il suo frutto alla rassegna delle anime” (Sap. 3, 13).

Con il più importante esponente della cultura giudaico-ellenistica, Filone di Alessandria (20 a.C. - 50 d.C. circa), troviamo un’ interpretazione del testo biblico con strumenti concettuali che non appartenevano certamente alla mentalità ebraica: “Filone dà una spiegazione in chiave filosofica della creazione del mondo e diviene così il primo pensatore antico a propugnare la tesi del creazionismo, su base biblica ma alla luce di una concezione greca. Prima di creare il mondo visibile Dio crea il mondo delle Idee, di conio platonico, ma con sede nella sua stessa mente, il Logos, non in un iperuranio indefinito come voleva Platone
(33).
 
Filone affronta anche la differenza fra i primi due capitoli della Genesi nel momento in cui “individua una duplice creazione: la prima è quella dell’uomo-Idea, fatto a immagine e somiglianza di Dio in quanto all’intelletto e archetipo della seconda creazione dell’uomo, plasmato con la terra e distinto in maschio e femmina”, ma dove “l’uomo (l’intelletto) si contamina nel contatto con la donna (i sensi) per il tramite del serpente, simbolo della passione edonistica che fa soccombere la razionalità alla sensualità” perché “…l’unione dell’intelletto (componente maschile) con la sensazione (componente femminile) avviene tramite il piacere che se è negativo porta al peccato(34).
Piacere che è negativo, cioè peccaminoso, quando non è finalizzato alla procreazione: “…essi sono amanti del piacere quando si accoppiano con le loro mogli, non per generare figli e perpetuare la stirpe, ma come maiali e capre alla ricerca del piacere che questi rapporti danno
(35).
 

L’interpretazione filoniana delle Scritture, nel momento in cui si proponeva di andare oltre il testo letterale cui si attenevano i sacerdoti di Gerusalemme, portava a un’astrazione spiritualizzante sostenuta proprio da un radicale disprezzo per la materialità: “…la materia (…) viene descritta in termini a tal punto negativi da non potersi concepire come una creatura di Dio (…) Il seguente passo tratto dal De providentia è esemplare di un tale tipo di interpretazione: “Nello stesso modo, dire che il mondo è retto dalla provvidenza non implica che Dio vegli su ogni realtà, ma implica che la dignità della Sua natura è tale da essere in ogni aspetto buona e utile: tutto ciò che è contrario è frutto di una deviazione che risulta sia dalla materia, sia dalla malvagità di una natura incontinente; e di queste cose Dio non è causa(36).

Nella sua opera si vede chiaramente una “…netta predilezione per Platone, che gli era più congeniale per il suo insistere sul contrasto tra mondo e Dio e tra materia e spirito…
(37).
I tratti salienti del pensiero greco sono evidenti: l’Idea, il Logos attiene alla sfera ‘alta’ dello Spirito, che il filosofo identifica nel Dio biblico stesso; la materia, tutto ciò che si riferisce alla sensualità, è contaminante e già fusa con l’idea giudaico-apocalittica di ‘peccaminosità’.
Paradossalmente, “il rigorismo di Filone, la sua visione negativa della sessualità non saranno recepiti dal giudaismo rabbinico, ma troveranno il loro terreno più fertile per svilupparsi nei pensatori cristiani
(38).
 

Uno dei maggiori filosofi ebraici fu cioè rifiutato da quella stessa cultura che lui tentava di spiegare al mondo occidentale, con gli strumenti metodologici del mondo occidentale, per affermarne, alla fin fine, la superiorità intellettuale e morale. Ma gli ebrei lo rigettarono e furono proprio i Padri della Chiesa a recuperarne il pensiero, credendo di individuare in lui un precursore del cristianesimo.
 

Non a torto se si pensa che la teoria della “doppia creazione” filoniana, derivata dalla duplice versione della Genesi, fu ripresa e riproposta da gran parte della patristica, come in Origene o in Ambrogio per il quale “l’uomo ‘fatto’, ossia l’anima, è l’essenza dell’uomo; l’uomo “plasmato”, o il corpo, non è elemento essenziale di noi, ma piuttosto un nostro possesso, o meglio un possesso dell’anima(39).

All’alba dell’era cristiana si agitavano quindi molti pensieri nel mondo culturale ebraico diviso fra Gerusalemme, Babilonia ed Alessandria. Le numerose correnti apocalittiche verso cui convergevano quelle messianiche, si andavano avvicinando, pur rifiutandone ampi tratti, a quelle ellenistiche, nella formulazione di un pensiero che identificava il puro con lo spirituale e con il Logos e l’impuro con il materiale ed il carnale; trovando così un terreno condiviso nel pensiero misogino e sessuofobico, nell’idea negativa del femminile e dell’unione sessuale. Un insieme di tendenze che si allontanavano sempre più dall’ebraismo della tradizione mosaica.

Nonostante i cenni al mito del peccato originale nei testi giudeo-ellenistici, si può però dire che solo con Paolo di Tarso il tema uscì davvero dall’oblio: “Adamo non è una figura importante nell’Antico Testamento; i profeti lo ignorano (…) Nel Nuovo Testamento Gesù stesso non si riferisce mai a questo racconto (…) È san Paolo che ha tratto il tema adamitico dal suo letargo (…) La figura di Adamo (…) è stata personificata sul modello di quella del Cristo alla quale fa da contrasto (…) È dunque falso che il mito adamitico sia la chiave di volta dell’edificio giudeo-cristiano
(40).
 

Il giudeo-cristianesimo si fonderebbe cioè sulle interpretazioni più mistiche del messianesimo ebraico, l’attesa di una guida, dalle caratteristiche già preterumane, per il popolo di Israele, ma non avrebbe in comune con il cristianesimo paolino il mito del peccato originale: “Non ci sarebbe alcuna prova certa che al tempo di Paolo il giudaismo offrisse una concezione chiara e definita sui possibili rapporti tra Adamo e il Messia, concezione che avrebbe potuto influenzare il parallelismo paolino Adamo-Cristo(41).

Per Paolo invece la connessione è chiara ed assume l’aspetto “fondante” che conosciamo: “Quindi, come a causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte, così anche la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché tutti hanno peccato (…) Come dunque per la colpa di uno solo si è riversata su tutti gli uomini la condanna, così anche per l'opera di giustizia di uno solo si riversa su tutti gli uomini la giustificazione che dà vita (…) Similmente, come per la disobbedienza di uno solo tutti sono stati costituiti peccatori, così anche per l'obbedienza di uno solo tutti saranno costituiti giusti
(42).
 
Nella logica paolina se si nega il peccato originale, si nega la necessità salvifica di Cristo, su cui si fonda tutto l’impianto di una religione che ha ormai caratteristiche di assoluta novità: “Con Paolo si verifica la netta rottura fra Ebraismo e predicazione cristiana nella misura in cui egli sottopose i materiali evangelici e le sue fonti bibliche e rabbiniche ad una radicale rielaborazione che li adattava alle esigenze teologiche e missiologiche della comunità nascente e e dell'espansione del messaggio presso i Gentili, con la conseguenza che l'originario modulo del messaggio veniva a perdere le sue connotazioni giudaicamente accessibili. L'affermazione che, fino all'avvento di Gesù, il genere umano si trovava sotto il dominio del peccato, la conseguente dottrina del peccato originale, l'idea della redenzione (…) quale unica via di liberazione dal peccato, capovolgono interamente le strutture del discorso originario ebraico. Nel sostenere il contrasto inconciliabile fra fede e legge, nel dare un nuovo significato alla dimensione ebraica di emunah (fede) attraverso l'intermediazione greca di pistis, nell'accentuare il dualismo carne-spirito, Paolo accoglie ideologie giudeo-ellenistiche e, per quanto riguarda la legge, schemi romani, che influenzano il suo pensiero non meno della Torah e dei Profeti: ed era fatale che gli Ebrei finissero con il volgergli le spalle
(43).

In questo senso Paolo non avrebbe avuto il ruolo di “esportatore” del pensiero ebraico verso il mondo greco-romano che gli è comunemente riconosciuto, ma più esattamente quello di propagatore di un pensiero che, nella sua elaborazione, già non era più ebraico nei suoi tratti essenziali.
Sembrerebbe dunque che la ‘riscoperta’ di Adamo, il recuperarne il mito da un ripostiglio culturale in cui era rimasto sepolto e dimenticato per un millennio, fosse finalizzata a proporre, in una dimensione speculare e contrapposta, la figura dell’ Uomo nuovo, il Cristo diventato l’ elemento centrale della nuova religione.
 

Detta in questi termini può sembrare che, “riconosciuto” il Messia, si sia poi cercata la figura di contrasto che ne giustificasse la funzione. E può darsi che sia andata così, le aspettative messianiche erano variegate all’epoca. Ma si potrebbe ipotizzare anche il contrario, che, cioè, l’ideologia di fondo di Paolo di Tarso fosse, in realtà, quella qumranica, anche se lui si definiva fariseo, figlio di farisei: se l’uomo è colpevole fin dall’utero, verità affermata, come abbiamo visto, ben prima della comparsa del Cristo, quale salvezza è mai possibile ? Come riscattare la vita umana senza speranza e perduta nella colpa ? Quale redenzione, se non quella, assoluta, resa possibile solo da un intervento diretto del creatore attraverso un messia dalle caratteristiche superumane ?
 

La comunità di Qumran proponeva, come salvezza, l’adesione alla comunità stessa, una ‘Extra Ecclesiam nulla salus’ ebraica, ma il sacrificio del Dio stesso, fattosi uomo, poteva apparire ben più risolutivo, offrire garanzie ben più affidabili di salvezza. Sarebbe stato un “capro espiatorio” particolarmente significativo.
La proposta di un “redentore” preterumano sembra essere, dunque, conseguente ad una convinzione ideologica preesistente, dove già si sosteneva che l’uomo fosse nella colpa ab origine. In questa logica sarebbe Adamo quindi, non Cristo, la figura centrale della nuova religione, perché se la redenzione appare come il completamento salvifico, salvezza comunque proiettata nel mondo dell’aldilà (e anche su questo ci sarebbero corpose differenze con l’idea ebraica di salvezza che allora era ampiamente nell’aldiqua), è evidente che la colpa “fin dall’utero” ne costituisce il vero tratto fondante, l’ideologia strutturale di riferimento. Un’ideologia che affonda le sue radici nell’enochismo-essenismo-qumranesimo e che trova infine, nel cristianesimo, il suo completo dispiegarsi in una prospettiva che afferma di essere cristocentrica, cioè fondata sulla salvezza, ma che in realtà è invece “amartiocentrica” cioè centrata sul peccato, sulla colpa.
 

L’opera di Cristo è niente altro che conseguenza dell’esistenza del peccato se nell’Exultet (44), riprendendo una frase di Agostino, si canta ancora oggi: “Davvero era necessario il peccato di Adamo, che è stato distrutto con la morte del Cristo. Felice colpa, che meritò di avere un così grande redentore!. Per i cristiani il peccato originale, cioè l’idea di nascere naturalmente ‘segnati’ dalla colpa, è una benvenuta “felix culpa” perchè “Se l'uomo non fosse andato in rovina, il Figlio dell'Uomo non sarebbe venuto" (45). E qui, a differenza di altri scritti veterotestamentari, "Figlio dell'Uomo" contraddistingue proprio il Messia preterumano.

Parallelamente alla riproposizione della colpa originaria, che immediatamente poneva la donna sotto accusa - “non fu Adamo ad essere ingannato, ma fu la donna che, ingannata, si rese colpevole di trasgressione(46) - nel pensiero paolino venne accolta l’idea essenica di peccaminosità legata alla sessualità: “…le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregoneria, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il Regno di Dio. Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé (…) quelli che sono di Gesù Cristo hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri…
(47).

Per essere chiari, il concetto di “carne” in Paolo di Tarso è ben riassunto nel Dizionario biblico (48) : "Essere carnale" in Romani 7, 14 è equivalente a schiavo del peccato; "vivere nella carne" (Galati 2, 20), "essere nella carne" (Romani 8,9), "camminare secondo la carne" (2 Corinzi 10, 2), non significano soltanto essere creature umane deboli e condizionate dalla propria natura, significano piuttosto essere guidati, ispirati, mossi dal peccato (…) La "carne" designa così la esistenza umana, la storia umana quale è diventata in seguito alla caduta ed al peccato, ed esprime la coscienza che questa realtà umana è tale a causa del suo allontanamento da Dio”. 

Ma se approfondiamo meglio la connessione cristiana tra peccato originale e sessualità vediamo che essa sembra trovare origine e conferma dalla consecutio tra espulsione dall’ Eden e il successivo rapporto carnale tra Adamo ed Eva; l’esegesi cristiana (49) sancisce la differenza tra “status naturae integrae
- che rappresenterebbe la natura originariamente non ancora corrotta dell’essere umano, precedente la trasgressione, ma anche precedente l’amplesso - e lo “status naturae lapsae” - cioè ‘decaduta’ - descritta nei capitoli Jahwisti della Genesi che parlano della trasgressione e della cacciata. Infine, nel quarto capitolo, “Adamo si unì con Eva” per procreare - sempre secondo il testo Jahwista - il primo figlio, Caino.
Il rapporto carnale sarebbe quindi esterno al paradiso terrestre
(50) e, di conseguenza, parte integrante dello “status naturae lapsae”. La “carne” paolina ha quindi - anche per motivi esegetici - la specificità sessuofobica che spesso viene rimproverata all’apostolo. Sesso e colpa sono sempre stati, nella lettura cristiana, strettamente connessi (come fu riconfermato infine anche dal Concilio di Trento). Ed è opportuno prendere nota che, per la Chiesa cattolica, “…il contesto più prossimo alle altre parole di Cristo (…) è il cosiddetto secondo racconto della creazione dell’uomo (Gen. 2,5-25), ma indirettamente è tutto il terzo capitolo della Genesi(51).
 

Fondante per la cristianità è il racconto di fonte Jahwista, che, dopo aver attraversato i secoli in modo carsico, rispuntando di soppiatto nella mentalità apocalittica e poi più nettamente in quella ellenistica, con l’affermarsi del cristianesimo inizia a scorrere maestosamente en plein air.
La convinzione ideologica di una colpa ontologica, fusa ad un sostanziale disprezzo per la materialità, sostenuta dalla nota misoginia paolina e dall’esaltazione della verginità come condizione più consona al rapporto con Dio, disegnava i tratti caratteristici della nuova religione, che potevano essere ritenuti condivisibili sia dagli ambienti apocalittici del giudaismo che dalle correnti ellenistiche: cioè dall’insieme delle correnti minoritarie dell’ebraismo intertestamentario.

In sostanza, quando si parla delle radici giudaico-cristiane della civiltà europea si dovrebbe circoscrivere il termine, più correttamente, a questo ambito culturale, da non confondere con l’ebraismo che aveva ed ha mantenuto tratti ideologici suoi propri, diversi da quelli cristiani, accanto, naturalmente, a spazi culturali e teologici che hanno invece costituito un terreno comune con il cristianesimo.
 

Il mondo ebraico sacerdotale, poi farisaico e infine rabbinico - cioè quello che oggi conosciamo come “ebraismo” tout-court - non accettò mai i tratti fondanti del cristianesimo: aborriva l’idea che il divino si potesse incarnare nell’umano, trovava blasfema e idolatrica l’idea della trinità, rifiutava con qualche sarcasmo (come nelle Toledoth Yeshu medievali) il concepimento virginale di Gesù, la Transunstanziazione (vale a dire la presenza del corpo e del sangue del Cristo nell’eucarestia) e, infine, l’idea che l’essere umano potesse essere ritenuto colpevole per trasgressioni non commesse da lui stesso. La prima, radicale resistenza al pensiero fondato sul ‘peccato originale’, sull’idea di trasmissibilità della colpa, si concretizzò proprio in quello stesso mondo ebraico che è indicato comunemente come l’ambito in cui questo pensiero si era formato. 

E contemporaneamente si delineò anche un’opposizione contro tutte le tendenze sessuofobiche che procedevano di pari passo con l’idea della colpa d’origine: “…nella concezione cristiana, è la negazione della dimensione sessuale a essere vista come positiva (…) l’ebraismo combatte contro l’idea che astenersi dai rapporti sessuali porti alla purità. Ed è per questo che, al suo interno, la prospettiva degli Esseni (…) fu minoritaria (…) Storicamente la reazione ebraica alla concezione cristiana della sessualità e del peccato originale che ne è alla base, non consistette in una sua negazione diretta, ma sfociò piuttosto nella creazione di un apparato normativo diverso (...) può darsi che la dottrina cristiana del peccato originale abbia contribuito a rafforzare la posizione ebraica verso una concezione positiva della sessualità
(52).


"Può darsi" è un'espressione interessante perchè indica l'incertezza di una ricerca che non può che essere apertissima, ma nello stesso testo si parla espressamente anche di 'reazione' ebraica alla proposta cristiana di considerare l'essere umano segnato dal peccato d'origine e di considerare il rapporto sessuale fra un uomo e una donna come peccaminoso di per sé. Il mondo ebraico non era tetragono e chiuso nella sua logica precettistica, ma reagiva.

Quello che è definito “apparato normativo diverso” è il precetto talmudico chiamato onah che afferma sostanzialmente il diritto femminile al rapporto sessuale, tuttora riconosciuto dal diritto matrimoniale ebraico insieme al divieto ai rapporti nei periodi di impurità - niddah (53) - all’interno di una logica di puro/impuro, non di bene/male. Questo precetto conferma come la cultura ebraica tradizionale, oltre a non riconoscere il concetto di ‘peccato originale’, sostanzialmente non fosse né sessuofobica né relegasse la donna in quello stato di soggezione passiva così diffuso nel mondo antico. Senza negare che correnti e ambiti misogini e sessuofobici si trovano anche nella storia ebraica come le correnti razionaliste medievali o le numerose  sette che si richiamano al chassidismo tedesco (XIII sec.) e polacco (XVIII sec.).
 

Se in questo precetto si parla esplicitamente di un dovere maschile verso l’amplesso è conseguente che vi si afferma anche un corrispondente diritto femminile; che la donna cioè aveva il diritto a soddisfacenti rapporti sessuali, mentre l’uomo non poteva che rispondere positivamente ed impegnarsi nell’atto: “l’adempimento da parte del marito del debito coniugale, l’onah, è un obbligo rigoroso della vita matrimoniale…(54), obbligo che va rispettato in ottemperanza allo scritto biblico “L’uomo farà lieta la moglie che ha sposato”.  La donna inoltre aveva il diritto - ma non il dovere - di procreare ed anche questo aspetto contribuì a differenziare l’ebraismo dalla cristianità. Non a caso “…molta parte del pensiero cristiano dei primi secoli, costru(ì) un’immagine dell’ebreo centrata non più solo sulla testarda renitenza a riconoscere la verità, ma anche sulla carnalità e immoralità(55).
Per questo si può affermare che “…nella prospettiva ebraica l’unione sessuale non è vista solo come finalizzata alla procreazione, ma si riconosce anche l’importanza e la bellezza dell’eros che conduce al piacere
(56), aspetto che si svilupperà più tardi in alcune correnti  della Qabbalah medievale, in una interessante assonanza con la mistica islamica, nell’affermare l’estasi erotica come rappresentazione dell’incontro con il divino.

I maestri dell’ebraismo rabbinico si erano ovviamente posti il problema di quando si formasse la tendenza peccaminosa dell’uomo (la “cattiva inclinazione” presente, insieme alla buona, nell’essere umano), ma va ricordato che “il termine cristiano ‘peccato originale’ non esiste in ebraico; soltanto nel XIII secolo fu coniato un termine corrispondente, in conseguenza delle controversie teologiche del tempo fra ebrei e cristiani
(57).
 
Riferimenti al mito di Adamo ed Eva sono evidentemente diffusi nella cultura rabbinica, nel Talmud e nei commenti midrashici, ma il capitolo Sacerdotale della Genesi sembra risuonare nello specifico pensiero ebraico relativo al rapporto uomo-donna, diverso da quello della cristianità che, come abbiamo visto, trovava una maggiore corrispondenza culturale con il testo Jahwista; ad esempio nello Zohar, il testo sacro per eccellenza della Qabbalah medievale, si afferma “il vincolo dell’unione tra il maschio e la femmina è il segreto della vera fede(58), facendo seguito all’idea che l’uomo è fatto a immagine e somiglianza di Dio, che è Uno; e quando l’uomo può dirsi Uno? solo quando è unito alla donna:“…(Dio) colma di benedizioni solamente il luogo in cui il maschio e la femmina sono congiunti. La Scrittura dice, infatti: li benedisse e diede loro il nome di Adamo; non dice: lo benedisse e gli diede il nome di Adamo, in quanto Dio benedice soltanto quando il maschio e la femmina sono uniti. Il maschio da solo, fino a quando non è unito alla donna, non merita neanche il nome di uomo; ecco, allora, le parole della Scrittura: ed Egli diede loro il nome di uomo
(59).

E’ sotto la pressione del pensiero cristiano, dunque, che la domanda se la ‘cattiva inclinazione’ fosse connaturata all’essere umano fu dibattuta. Ricordiamo un trattato medievale, il Libro della confutazione dei fondamenti cristiani, scritto in Spagna dal rabbino Chasdai Crescas dopo i pogrom antigiudaici del 1391, così come l'opera di un rabbino italiano,  Leone Modena (1571-1648); in questi testi si accetta l’idea che la colpa di Adamo sia stata punita con la trasmissione per via ereditaria dei difetti del corpo, in primis la perdita dell’immortalità, cioè con una punizione di tipo “fisico” che perdura nel tempo e investe tutta l’umanità; ma si rifiuta categoricamente l’idea di una punizione di tipo “spirituale” che consiste nel considerare colpevoli tutte le anime successive ad Adamo,  idea centrale invece nel cristianesimo. Con questo rifiuto si respinge anche l’idea della necessità della redenzione dalla colpa originaria operata dal Cristo morto e risorto.

Questa differenza è fondamentale per capire come ebrei e cristiani siano divisi dalla diversa interpretazione della Genesi e, soprattutto, dell' essenza dell' essere umano.
Alla fine, il pensiero ebraico si riferì allo scritto “il peccato giace alla porta(60), vale a dire che la peccaminosità non poteva essere posta prima della nascita, ma alla ‘porta’, all’apertura del corpo materno, cioè dopo la nascita.


Per questo motivo un neonato di famiglia cristiana viene battezzato ed uno di famiglia ebrea viene circonciso (se è maschio ovviamente): il primo è un rito di purificazione, il secondo no.


In conclusione: “nessun Dottore (61) dell’età talmudica ammetterebbe che un essere umano possa commettere una colpa di cui non sia personalmente responsabile. Una tale ammissione sarebbe incompatibile con il dogma del libero arbitrio
(62). Né esiste l’idea che possa esistere una colpa primigenia: “il concetto di peccato originale come colpa assoluta, esclusiva del rapporto tra uomo e Dio e specialmente irreparabile da parte dell'uomo, non esiste nella tradizione ebraica(63).
 

I termini della questione (rifiuto dell’idea di una colpa di tipo “spirituale”, affermazione del libero arbitrio ed il rifiuto della trasmissibilità della colpa di generazione in generazione che abbiamo visto formarsi con Ezechiele nel VI sec. a.C.) concorrono a rendere il concetto di “peccato originale”, così come inteso dal cristianesimo, del tutto inaccettabile per l’ebraismo: “A differenza di altre culture, che vedono il neonato segnato da una sorta di peccato ed impurità strutturale intrinseca alla nascita ed alla sfera sessuale, l'ebraismo ripudia ogni sorta di accanimento morale contro il sesso e a maggior ragione contro i neonati. In effetti il neonato è considerato non solo ritualmente puro, ma anche libero da ogni trasgressione(64).
Per dissipare ogni dubbio, nessuna frase è più chiara di questa nota espressione della tradizione midrashica: “Felice l’uomo la cui ora della morte è come quella della nascita: così come alla sua nascita è esente da peccato, così possa essere esente da peccato alla sua morte
(65).

Anche nel Corano, il libro sacro dell’Islam, si parla del peccato originale in alcune Sure, descrivendone le conclusioni in modo diverso. Nella Sura 2, 35-37 (Al Baqara), Adamo si pente del suo errore e Dio, misericordioso, gli concede il perdono: “E dicemmo: ‘O Adamo, abita il Paradiso, tu e la tua sposa. Saziatevene ovunque a vostro piacere, ma non avvicinatevi a quest'albero, ché in tal caso sareste tra gli empi’. Poi Iblîs (il diavolo) li fece inciampare e scacciare dal luogo in cui si trovavano. E Noi dicemmo: ’Andatevene via, nemici gli uni degli altri. Avrete una dimora sulla terra e ne godrete per un tempo stabilito’. Adamo ricevette parole dal suo Signore e Allah accolse il suo [pentimento]. In verità Egli è Colui che accetta il pentimento, il Misericordioso”. 


Nella Sura 7, 23-25 (Al-A'râf) invece non sembra esserci perdono: “Dissero: ‘O Signor nostro, abbiamo mancato contro noi stessi. Se non ci perdoni e non hai misericordia di noi, saremo certamente tra i perdenti’. ‘Andatevene via - disse Allah - nemici gli uni degli altri ! Avrete sulla terra dimora e godimento prestabilito. Di essa vivrete - disse Allah - su di essa morrete e da essa sarete tratti’”.
Ancora, nella Sura 20, 115-123 (Tâ-Hâ) troviamo “Già imponemmo il patto ad Adamo, ma lo dimenticò, perché non ci fu in lui risolutezza. E quando dicemmo agli angeli: ‘Prosternatevi davanti ad Adamo’, tutti si prosternarono, eccetto Iblis, che rifiutò. Dicemmo: ‘O Adamo, in verità quello è un nemico manifesto, per te e per la tua sposa. Bada a che non vi tragga, entrambi, fuori dal Paradiso, ché in tal caso saresti infelice. [Ti promettiamo che qui] non avrai mai fame e non sarai nudo, non avrai mai sete e non soffrirai la calura del giorno’. Gli sussurrò Satana: ‘O Adamo, vuoi che ti mostri l'albero dell'eternità e il regno imperituro?’. Ne mangiarono entrambi e presero coscienza della loro nudità. Iniziarono a coprirsi intrecciando foglie del giardino. Adamo disobbedì al suo Signore e si traviò. Lo scelse poi il suo Signore, accolse il suo pentimento e lo guidò e disse: ‘Scendete insieme! Sarete nemici gli uni degli altri. Quando poi vi giungerà una guida da parte mia... chi allora la seguirà non si svierà e non sarà infelice’”.


Torna l’ipotesi di una debolezza di Adamo, quindi dell’errore, del pentimento e della misericordia, ma anche l’idea di una guida di tipo messianico in un tempo posteriore alla caduta stessa.
Nonostante le varianti e l’evidenza di un divieto, di una colpa e di una punizione (cioè di un riferimento al secondo capitolo della Genesi biblica), nella cultura islamica si è comunque sedimentata l’idea del perdono divino (66). L’ipotesi avanzata da alcuni studiosi è che Adamo - benchè non sia menzionato esplicitamente come Profeta nel Corano - fosse pensato come profeta-inviato dalla tradizione, per questo non gli si potevano addebitare peccati, ma solo eventuali errori di giudizio, distrazioni o dimenticanze. “I commentatori non dubitano dell’errore compiuto da Adamo, ma influenzati dal dogma dell’ impeccabilità profetica tentano di minimizzarne il peso…
(67).
 

Non ci sarebbe stata cioè una colpa grave, ma solo una trasgressione di poco conto da cui si deduce che gli esseri umani non nascono originariamente ‘macchiati’. Perfino in un opuscolo curato dall’Ufficio turco per gli Affari Religiosi e distribuito ai turisti davanti alla Moschea Blu di Istanbul, intitolato “Cos’è l’Islam?”, si rimarca la differenza con il cristianesimo: un paragrafo è dedicato all’assenza del peccato originale nell’Islam in cui, è detto, “tutti gli esseri umani nascono puri” e dove “ciascun individuo è responsabile dei suoi propri atti, e nessuno porterà il fardello di un altro”(Corano, 6/164). Decisamente in continuità con il detto biblico “non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato” (Deuteronomio, 24,16).

Cristianesimo ed ebraismo
sono stati definiti “falsi gemelli(68); se l’uno afferma la naturale perversione umana e l’altro ne afferma invece l’integrità d’origine (origine beninteso di tipo creazionista) queste differenze nella concezione di fondo dell’essere umano fanno ritenere assolutamente condivisibile questa definizione.
Quando l’ebraismo è uscito di scena, almeno nel grande gioco dei conflitti culturali (ma tornerà ad avere un suo ruolo quando la Qabbalah medievale si irradierà dalla Spagna ommayade influenzando ampi tratti della cultura europea), a fronte del cristianesimo
trionfante del VII secolo d.C., arma culturale di Bisanzio e dei nuovi regni dei territori occidentali dell'Impero Romano, sarà l'Islam ad ergersi di nuovo in un'altra reazione culturale, religiosa, sociale e politica che avrà enormi conseguenze storiche. Fu l’Islam a raccogliere il testimone di un’idea di originaria purezza, degli esseri umani  apportando alla cultura la sua innegabile originalità.



settembre-novembre 2009




Note

1) M. Ammanniti, Anima e Eros, come Freud è tramontato, Repubblica 20/08/1997. La definizione è dello stesso Freud in Introduzione alla psicanalisi, lezione 13.
2) Cfr. oltre a nota 49.
3) "Letta serenamente, liberi perfino dall'ansia di doverla confutare, l'opera di Freud apporta al credente cristiano una straordinaria conferma della sua fede. Egli riduce tutta la religione a nostalgia del Padre (...) ma tutto questo si tramuta in un'apologia straordinariamente convincente del vangelo di Cristo che ha appunto nella paternità di Dio il nucleo più profondo della propria dottrina. Il posto che occupa Dio Padre nella rivelazione cristiana è l'unico che risponde adeguatamente all'importanza che il padre riveste nelle analisi di Freud", padre Raniero Cantalamessa, Credere in Dio 'Padre' dopo Freud, Osservatore Romano, 28/03/1999.
4) Epopea di Gilgamesh, cap. IV.
5) Giovanni Semerano, Le origini della cultura europea. Il mito si trova anche in Uomini e dèi della Mesopotamia, J. Bottéro, S. Kramer ed è forse proprio al grande sumerologo Samuel Noah Kramer che si deve la scoperta che la stessa parola sumerica indica sia costola che vita.
6) David Biale, L'eros e l'ebraismo. Dai tempi biblici ai giorni nostri.
7) Paolo Sacchi, La trascendenza nella Bibbia, in Saggi: la trascendenza e il destino dell'Occidente.
8) Le datazioni bibliche sono tuttora controverse. Adotto qui quelle ampiamente condivise e proposte da Mons. G. Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, della Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa e Presidente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra.
9) Bibbia, vers. CEI
10) Che l’uomo sia fatto a immagine di Dio e che Dio gli abbia soffiato l’anima nelle narici si trovava già nell’ Insegnamento per Re Merikaré, X dinastia egizia, XXII-XXI sec. a.C., Papiro Carlsberg, 6.
11) Discendenti di Sadoq, Gran Sacerdote ai tempi di Salomone.
12) Setta dalla spiritualità accentuata, composta da membri del popolo, al contrario dei Sadociti appartenenti all'aristocrazia dell'epoca.
13) Ezechiele, 18,20. Pensiero che si trova poi in Deuteronomio 24,16: "non si metteranno a morte i padri per una colpa dei figli, né si metteranno a morte i figli per una colpa dei padri; ognuno sarà messo a morte per il proprio peccato". Nel Corano sarà poi ripreso il concetto della responsabilità individuale nella Sura 6,164 "ciascun individuo è responsabile dei suoi propri atti e nessuno porterà il fardello di un altro".
14) Deuteronomio 5, 9-10. Questo parte del Deuteronomio è comunemente datata al VIII-VII sec. a.C.
15) Paolo Sacchi, Sacro/profano, impuro/puro nella Bibbia e dintorni.
16) P. Sacchi, cit.
17) P. Sacchi, cit.
18) P. Sacchi, cit.
19) Gershom Scholem, Concetti fondamentali dell'ebraismo.
20) Giudici 13, 22
21) P. Sacchi, cit.
22) Giovanni Deiana, Levitico.
23) P. Sacchi, cit.
24) P. Sacchi, cit.
25) Ezechiele 44, 23
26) P. Sacchi, Storia del Secondo Tempio.
27) P. Sacchi, L'apocalittica giudaica e la sua storia.
28) Libro dei Vigilanti 15, 3-4
29) Libro dei Vigilanti 7
30) P. Sacchi, L'apocalittica giudaica e la sua storia.
31) Inni di Qumran, 1QH - Col. XII (=IV), 5-40, Preghiera nell’angoscia e fiducia in Dio.
32) Caterina Moro, La Bibbia ebraica come fonte di storia dell’ideologia in una citazione di J. Barr, The Garden of Eden and the Hope of Immortality.
33) Clara Kraus Reggiani, Storia della letteratura giudaico-ellenistica.
34) C. K. Reggiani, cit. Per uomo ‘fatto’ o ‘creato’ si intende quello di Genesi 1, è ‘plasmato’ invece quello di Genesi 2.
35) Filone, De Specialibus Legibus.
36) Roberto Radice, Platonismo e creazionismo in Filone di Alessandria.
37) C. K. Reggiani, cit.
38) Mauro Perani, Ebraismo e sessualità nel medioevo in Eros e Bibbia.
39) Lorenzo Dattrino, Teología y Vida, Vol. XLIII, 2002.
40) Paul Ricoeur, Finitudine e colpa.

41) Mauro Gagliardi, La cristologia adamitica: tentativo di recupero del suo significato originario.
42) Paolo di Tarso, Romani 5, 12-21
43) Ariel Toaff, Gesù e incomprensibilità del messaggio cristiano, in www.nostreradici.it/cristianesimo_farisei.htm
44) Canto liturgico pasquale detto anche Praeconio paschale (XI sec.).
45) Agostino d’Ippona, Sermone 174. “Figlio dell’Uomo” è antico semitismo per definire un essere umano e contempora-neamente la denominazione del messia tratteggiato già nel libro di Daniele e poi ripreso più volte in altri testi.
46) Paolo di Tarso, 1Timoteo 2, 14
47) Paolo di Tarso, Galati, 5, 19-24
48) Dizionario Biblico, a cura di G. Miegge, ristampa a cura di B. Corsani, A. Soggin e G. Tourn, Claudiana, Torino, 1984, in http://www.riforma.net/teologia/carne.htm
49) Giovanni Paolo II, Udienze Generali 12 e 19.09.1979.
50) Agostino affermerà invece che il rapporto sessuale avveniva anche nell’Eden, ma in una dimensione in cui la sessualità era controllata dalla volontà e regolata dalla ragione.
51) Giovanni Paolo II, Udienza Generale del 12.09.1979
52) Giuseppe Laras, L’amore nel pensiero ebraico.
53) Cioè “…obblighi connessi alle regole di impurità rituale che limitano la donna nel periodo mestruale. Si tratta di una concezione basata sul rifiuto del sangue, in un sistema globalmente diverso da quello cristiano che invece è centrato in larga parte sul rifiuto della sessualità”, Anna Foa, Ebrei in Europa. Dalla peste nera all’emancipazione.
54) A. Foa, cit.
55) A. Foa, cit.
56) G. Laras, La natura nel pensiero ebraico.
57) A. Schwarz, La donna e l’amore al tempo dei miti.
58) Moshe de Leon, Sefer ha-Zohar, Wa Jesè, 101b.
59) Moshe de Leon, Sefer ha-Zohar, B’hibar’ham. B’Avraham, 91.
60) A. Cohen, Il Talmud, frase tratta da Genesi, 4, 7
61) Con questo termine vengono spesso indicati i rabbini, cioè i sapienti.
62) A. Cohen, cit.
63) Gavriel Levi, La riparazione infinita è originale? in http://www.morasha.it/zehut/gvl10_riparazione.html
64) Jonathan Pacifici, Parashat Tarzria, da http://digilander.libero.it/parasha/archivio%2060/6027.htm
65) Midrash Qohelet Rabbà, cap. III v. 2 (commento rabbinico al Libro di Qohelet, databile tra il VI e il IX sec. d.C.).
66) “Secondo gli studi islamici, l'essere umano è per sua natura innocente: non solo nasce puro, senza peccato, ma anche credente, e si trasforma in qualcosa di differente solo sotto l'influenza dell'educazione e dell'ambiente”, Taufik Ibrahim, Lo spirito umanista nell’Islam.
67) Mohammad Ali Amir-Moezzi, Dizionario del Corano.
68) Citazione tratta dal saggio di Mauro Perani Giudaismo e cristianesimo "falsi gemelli": saggio di antiebraismo teologico e di polemica confessionale antigiudaica. A proposito di due libri recenti di André Paul, contro il risorgente antigiudaismo teologico,  pubblicato in "Rivista Biblica" (it.) 44 (1996), pp. 455-473.

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La Sacra Bibbia, Ed. CEI, 1974. Una versione on line è reperibile all’indirizzo: www.laparola.net

Il Sacro Corano, Traduzione interpretativa in italiano a cura di Hamza Piccardo, revisione e controllo dottrinale Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia – UCOII.


CHI SONO

Elena Bartolini, Teologa Ecumenica, Docente di Giudaismo presso il Centro Studi del Vicino Oriente di Milano, Direttrice della Collana ‘Studi Giudaici’, membro dell'Associazione Italiana Studi del Giudaismo.
David Biale, Docente di Storia Ebraica dell’Università della California.
Gabriele Boccaccini, Full Professor of Second Temple Judaism and Christian Origins, University of Michigan. Socio dell'Associazione Italiana Studi del Giudaismo.
Giulio Busi, direttore dell'Istituto di giudaistica della Frei Universität di Berlino. Socio dell'Associazione Italiana Studi del Giudaismo.
Massimo Fagioli, si è laureato all’Università di Roma in Medicina, si è poi specializzato in Neuropsichiatria ed ha fatto la prima esperienza manicomiale a Venezia; lavora successivamente all’ospedale psichiatrico di Padova dove organizza esperienze di psichiatria attiva con gruppi di malati; approfondisce la sua osservazione dei malati in Svizzera, nella clinica di Binswanger a Kreuzlingen, dedicandosi ad una esperienza di comunità terapeutica, convivendo notte e giorno con i malati senza mediazioni. Dopo una lunga analisi personale e circa dieci anni di esperienza di psicoanalisi individuale, propose nel 1971 agli ambienti scientifici il risultato delle sue esperienze e della sua formazione con "Istinto di morte e conoscenza". Dal 1975 Fagioli ha dato vita ai seminari di analisi collettiva sempre molto frequentati e ha continuato nel tempo a svolgere ed approfondire i postulati teorici del 1971 in una serie di altri scritti ed espressioni sia in ambito psichiatrico che in ambito artistico (da http://www.vertici.it/servizi/psicofinder/template.asp?cod=11171)
Anna Foa, Professore associato, Università "La Sapienza", Roma. Socio dell'Associazione Italiana Studi del Giudaismo.
Giuseppe Laras, Presidente dell'Assemblea Rabbinica Italiana, è stato dal 1980 al 2005 Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Milano. Docente di Storia del Pensiero Ebraico nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Milano.
Charles Mopsik (1956-2003) autore di  numerosi testi su giudaismo e Qabbalah; biografia non disponibile.
Mauro Perani, Professore ordinario di Lingua e letteratura ebraica Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, Sede di Ravenna, Dipartimento di Storie e Metodi per la Conservazione dei Beni Culturali, Direttore del "Progetto Ghenizà italiana", Segretario dell'Associazione Italiana per lo Studio del Giudaismo (AISG).
Paolo Sacchi, studioso di fama internazionale, già docente di ebraistica e filologia biblica all'Università di Torino, ha fondato la rivista "Henoch" di studi storico-filologici sull'ebraismo ed è Socio Onorario dell'Associazione Italiana Studi del Giudaismo.
Gerschom Scholem (Berlino, 1897 - Gerusalemme, 1982) laureato in lingue semitiche all'Università di Monaco, nel 1923 emigrò in Palestina, dove divenne capo del Dipartimento di Ebraico della Libreria Nazionale Ebraica. Dopo la nascita dello Stato di Israele fu presidente dell'Accademia nazionale delle Scienze. Nel 1965 ebbe il titolo di professor emeritus all'Università Ebraica.

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